C’è una regola che tendiamo a dimenticare quando progettiamo contenuti digitali: le persone interagiscono con prodotti e servizi nello stesso modo in cui interagiscono con le altre persone nella vita sociale.
Quando parliamo con un amico, un vicino di casa o una collega, le buone norme della comunicazione sono chiare. Nell’interazione con le persone l’empatia ci aiuta a condurre conversazioni di buon senso.
Sembra banale, eppure nella comunicazione digitale ci troviamo quotidianamente davanti a testi e messaggi sbagliati, scritti per ipotetiche creature di un universo parallelo.
Come utenti abbiamo imparato negli anni a decodificare gli strumenti tecnologici sulla base di modelli mentali che usiamo per altri tipi di operazioni analogiche.
Abbiamo imparato a riconoscere le parole del digitale come segnali che ci guidano e ci orientano dentro percorsi spesso opachi.
Pensieri e parole
I modelli mentali rappresentano la nostra visione soggettiva della realtà. Li costruiamo nel tempo e con l’esperienza e attraverso di essi leggiamo gli eventi che ci accadono.
Il modello mentale di chi ha le chiavi della conoscenza (tecnologica o di un settore specifico) spesso non prende in considerazione la possibilità che altre persone non ne capiscano il significato.
Ciò che pensiamo deriva dai nostri modelli mentali, e dai pensieri derivano le parole che usiamo e quelle che non usiamo.
Le parole che usa chi appartiene a un gruppo ristretto e specifico sono spazi vuoti per il resto degli utenti, i quali non riconosceranno quei segnali che indicano le informazioni di cui sono in cerca.
Non è solo una questione di empatia. Se l’empatia è provare quello che sentono gli altri, la comunicazione è basata sulla capacità di metterci nei panni delle altre persone.
Il valore delle emozioni
Recuperare una password o richiedere un documento da un sito web può trasformarsi in un’operazione molto complessa, se le parole che devono guidare gli utenti sono ermetiche formule tecniche.
Quando non ritrovano lo schema logico del loro modello mentale, le persone si sentono perse e provano emozioni negative: ansia, disagio, rabbia, paura.
Sono impotenti davanti a procedure incomprensibili, perché la loro esperienza verbale è lontana dai loro pensieri e dalle loro emozioni.
Quando si adatta alle emozioni e ai modelli mentali delle persone che usano un nostro prodotto o servizio, la lingua è onesta. È precisa, e la precisione è egalitaria.
Se invece sottovalutiamo la psicologia delle persone, l’esperienza verbale si riempie di ambiguità. Dovremo sperare che i nostri utenti condividano il nostro contesto culturale, formativo e sociale, che lo conoscano abbastanza da immaginare i dettagli che non abbiamo fornito e che riempiano da soli il vuoto semantico che abbiamo lasciato.
Un nuovo umanesimo digitale
Sperare che gli utenti capiscano quello che non spieghiamo è sperare in una somiglianza sociale e culturale che è di per sé una barriera d’ingresso.
L’unica garanzia che ci dà la lingua disonesta è che gli utenti capaci di superare la barriera somiglieranno al nostro team.
Progettare esperienze verbali umane è unire le competenze, in una economia di scambio che non si esaurisce nella pratica del design. La buona scrittura, e in particolare quella per la user experience, non è solo tecnica ma soprattutto connessione tra testa e pancia di chi parla e di chi ascolta, e viceversa.
Un prodotto o servizio digitale che sceglie di usare una lingua onesta accoglie le differenze. Rispetta il tempo, le emozioni e le capacità delle persone, non allontana chi è più vulnerabile e non usa parole inappropriate quando aumentano le incomprensioni e la frustrazione.
Preferire la lingua onesta alla lingua disonesta è scegliere la via di un nuovo umanesimo digitale: sta a noi decidere da che parte stare.
Questo articolo richiama contenuti da Emotion Driven Design.
Immagine di apertura di Mayur Gala su Unsplash.
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