In principio era la fine
Con l’avvio della sospirata Fase 2 dell’emergenza Covid-19, è tempo di iniziare a ragionare chiavi in mano sul mondo che ci aspetta e che abbiamo intenzione di (ri)costruire da questo momento in avanti. In particolare il mondo del lavoro, dal quale – pur con tutte le criticità del caso – durante il periodo di lockdown sono arrivati i segnali più confortanti in prospettiva futura.
Se isoliamo quantitativamente le condizioni-limite provocate dal lockdown, infatti, il quadro che si compone ha un peso specifico qualitativamente incoraggiante sia dal punto di vista employer sia dal punto di vista employee. Nel primo caso, come testimoniano i dati di Universum, la maggior parte delle aziende ha adottato soluzioni mirate per supportare i propri dipendenti (nel 64 percento dei casi anche sul piano psicologico) e tenerli il più possibile coesi e ingaggiati. Nel secondo, come testimoniano invece i dati di GlobalWebIndex, la maggior parte dei dipendenti ha trovato nello smart working più vantaggi che svantaggi: il 58 percento ha apprezzato la maggiore flessibilità degli orari, il 47 percento il risparmio dei tempi di trasferta e il 38 percento la possibilità di mangiare e dormire meglio.
Rispetto al processo di disruption dello status quo che – non fosse sufficiente la nostra stessa percezione – analisti e sociologi ci hanno raccontato in toni ben poco rassicuranti, sul fronte HR possiamo invece impugnare penna e calamaio e provare a scrivere una storia diversa.
Ora o mai più
Per cominciare, però, dobbiamo commutare le scelte tattiche che il coronavirus ci ha imposto fino a oggi in scelte strategiche. Ovvero: prefissarci obiettivi di medio e lungo termine che non rispondano unicamente a un’emergenza contingente. Pianificare non soltanto cosa qui-e-ora, ma come da ora in poi. Capire dove riallocare i budget (o ciò che ne resta) per fare ripartire i business e i mercati.
Non da ultimo: ragionare da formiche anziché da cicale, resistendo alla tentazione di volere l’uovo oggi e accettando di aspettare per avere la gallina domani.
Mai come nei prossimi giorni, infatti, le aziende saranno chiamate a prendere decisioni il cui impatto effettivo sia misurabile anzitutto in termini di produttività. Che significa sgombrare il campo (una volta per sempre) da tutto il rumore di fondo generato dal conteggio compulsivo di like, follower, visualizzazioni e swipe concentrandosi, piuttosto, su ciò che per la produttività di un’azienda genera un autentico valore propulsivo aggiunto. E non sono gli spot di prodotto, ma le risorse umane.
Amici in cinque minuti?
L’incremento esponenziale del tempo che abbiamo trascorso online (+30 percento su base Europa tra febbraio e marzo), sui social media (+31 percento su base Italia tra gennaio e marzo) o davanti alla televisione (+6 milioni di telespettatori su base Italia tra marzo 2019 e marzo 2020) ci ha reso spettatori di una interminabile sequenza di pubblicità, post e messaggi commerciali vari ed eventuali correlati alla pandemia, quello che in gergo definiamo real time marketing. In molti casi si è trattato di contenuti di entertainment, di utilità e/o di servizio creati per stabilire o per mantenere una relazione di fiducia e prossimità con il proprio pubblico. Pensiamo, tralasciando per ovvi motivi le iniziative ascrivibili a intenti di charity e social responsibility, ai brand che hanno organizzato eventi, regalato guide, dispensato suggerimenti, promosso webinar o potenziato l’assistenza clienti.
In molti altri, però, si è trattato perlopiù di unirsi a un flow per una implicita e talora malcelata Fear Of Missing Out: se lo stanno facendo tutti, a cominciare dai miei diretti competitor, non sarà forse il caso che lo faccia anch’io?
Il che non è necessariamente un problema ma può diventare un errore (di lettura dei risultati), oppure non è necessariamente un errore ma può diventare un problema (di credibilità). Da una parte, il rischio è avere investito su interazioni effimere; dall’altra, è addirittura avere investito su un calo di reputazione. Come ha rilevato Edelman, il 69 percento degli utenti italiani non è più disposto ad acquistare prodotti di brand che hanno risposto alla pandemia con un approccio speculativo, anteponendo alle esigenze delle persone le loro ambizioni di visibilità e presenza.
E quindi uscimmo a riveder le stelle
Dunque, per quanto possa spesso suonare grottesca la parola opportunità, la Fase 2 dell’emergenza Covid-19 (e del 2020 in generale) lo è in senso letterale. L’opportunità di scoprire, facendo di necessità virtù, il potenziale dell’Employer Branding non più come soluzione di talent acquisition ma come strumento di business a tutti gli effetti, capace di generare il migliore ritorno sull’investimento laddove, oggi, ce n’è più bisogno.
Negli ultimi anni abbiamo sentito ripetere come un mantra il concetto di utente al centro, dove il centro – nel mondo prima del Coronavirus – era la posizione all’interno di un flusso di acquisto. Nel New Normal, quel centro deve diventare il ruolo di ogni individuo all’interno di ogni impresa lungo tutto il processo di acquisizione, formazione, ingaggio, fidelizzazione e riconoscimento del suo capitale professionale. Un processo che HR e Marketing devono costruire insieme, implementando progettualità condivise come condivisi devono essere la visione, la mission e gli obiettivi aziendali.
In fondo, la pandemia ci ha insegnato che il mondo può cambiare davvero da un giorno all’altro. Anche in meglio.
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