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Una storia in soggettiva delle tecnologie a scuola

14 Settembre 2010

Una storia in soggettiva delle tecnologie a scuola

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In classe l'innovazione fatica ad arrivare dall'alto. Invece è imposta sempre più spesso dagli studenti, sollecitati da strumenti e pratiche nuove. Gli insegnanti procedono a vista e possono contare soprattutto sul buon senso e sulla loro esperienza. Una testimonianza dal cuore del sistema

Ho cominciato a scrivere la mia tesi di laurea con una macchina elettrica della Olivetti, che memorizzava una cinquantina di caratteri, li visualizzava e rendeva possibile fare qualche correzione. Quando ne ho potuto disporre, abbandonando la macchina portatile a nastro, ho sentito che il mio lavoro sarebbe stato più semplice. A tesi in corso, potei attingere a un sistema di videoscrittura, sempre Olivetti, che permetteva di memorizzare addirittura tre-quattro pagine. Ho sentito che il mio lavoro sarebbe stato più semplice. Ed era vero. E poi, fu per me la scuola, agli inizi degli Anni Novanta. L’inizio c’era già stato, ma ne colsi una delle code: i corsi di aggiornamento per i docenti sui bit e sui byte, nei quali ci si sedeva in una similclasse, si ascoltava l’esperto, che spesso (ma non sempre) era un docente di matematica, si prendevano appunti, si facevano domande, e si tornava a casa.

Il laboratorio

Erano già arrivate, e ancor più presero a venire, le ore d’informatica a scuola, sotto forma di progetto ad acronimo variabile o di offerta aggiuntiva: per anni, una risorsa inoppugnabile e scintillante per far iscrivere nuovi allievi. Tra le ore d’informatica, che fossero per docenti o studenti, e l’uso di un computer, passavano delle cose in mezzo, naturalmente. Il computer l’avevano ancora in pochi, costava parecchio. E, soprattutto, chi l’aveva, docente o studente che fosse, non stava tanto a riflettere sui bit e sui bytes, ma provava a farci qualcosa. Qualcosa che era poi complicato condividere, però. Il mio primo bussolotto IBM, agli albori del 1992, fu un 386, che appena si avviò mi rimandò carognesco la schermatina scura e il C due punti et cetera, lasciando che poi me la vedessi io. E un po’ me la vidi, con l’aiuto non tanto dei corsi, quanto di amici. Quello che arrivavo a vedere di  meglio diventava parte del lavoro scolastico: la scrittura, dunque, agli inizi. Appunti, compiti, schede, programmazione. E dunque, così erano gli inizi degli Anni Novanta, tra me e le macchine intelligenti: contesti di apprendimento prevalentemente informali, basati su reti amicali, facilitazione di memoria e di scrittura.

A scuola, intanto, i nuovi allievi s’iscrivevano, informandosi ben bene sulle ore d’informatica e, da un certo punto in avanti, sull’esistenza del laboratorio d’informatica (variante: l’aula).  Per un bel po’ di tempo (un decennio almeno) quello è stato il luogo di riferimento fondamentale di quella che s’è chiamata a lungo informatica: il laboratorio. Un luogo, con un tecnico, con ore di accesso bene definite, con sempre qualche necessità di condivisione di spazi e postazioni (un luogo, capiamoci, inevitabile anche oggi, perché mica tutti ce l’hanno ancora, il computer, nonostante quello che possiamo pensare). C’era pure qualcuno (ricordate Roberto Maragliano?) che cominciava a dire di prendere sul serio anche l’apprendimento dai videogiochi…

Arriva internet

Poi, fu la volta dell’ECDL, negli anni in cui la scuola si lanciava sulla certificazione. L’accoppiata ECDL-First, l’ancor più accattivante ECDL-Proficiency (per non parlare dell’esotico triplete ECDL-Proficiency-Deutsch Zertifikat) era un obiettivo importante, nella scuola delle competenze da valorizzare di berlingueriana memoria (un’idea straordinaria e bislacca insieme, dare visibilità in un contesto formale ad un percorso informale).  L’ECDL dava un programma, stimolava delle competenze da formare, istruiva su fogli di calcolo e database. Un po’ scolastico, un po’ troppo scolastico forse (come qualcuno notò), ma proprio per questo utile a molti. A scuola, questo voleva dire cose più veloci, scrittura più facile. Riferimenti. Intanto, si moltiplicavano in classe i cellulari. Un bel giorno, in un’aula, si aprì una discussione sulla quantità di denaro in ricariche spesa da alcuni dei ragazzi. Per cosa? Per i messaggi, mi fu risposto. (Rimasi perplesso: i messaggi? Mah…).

E fu l’ora di internet, più o meno alla fine degli anni Novanta. Il primo esotico provider che la mia scuola contattò (si era all’alba del 1997) era di Aviano, roba di americani insomma,  e certo lì per lì non era bellissimo pagare un bel po’ per vedere di nuovo le schermatine zeppe che consentivano, però, di entrare nel sito della Casa Bianca, qualunque cosa volesse dire questo. Ma l’accelerazione fu subito brusca, secca: nel giro di qualche mese IOL ci diede accessi più facili, a scuola si cominciava a girare per siti, per applicazioni. Soprattutto, si maneggiava (e si pasticciava) con l’ipertestualità. La metafora che affascinò molti, a scuola, fu quella del link. Una metafora che andava bene per tutte le materie, trasversale insomma.

La rete diventa sociale

Fu maneggiando la Rete ed i link mi venne in mente di frequentare un corso di perfezionamento in elearning organizzato da Antonio Calvani e Mario Rotta a Firenze. Imparare anche a distanza, interagire a distanza, collaborare nelle scritture, collegare per gerarchie di senso: tutte cose che modificavano lo stare a scuola, ne ero sicuro, anche se poi, per far riconoscere quel corso, dovevamo fare equazioni strane tra ore di lavoro online e ore in presenza… Da lì, qualche anno dopo, l’idea di fare un Master sull’e-learning ad Udine, con Pier Giuseppe Rossi: l’occasione nella quale imparai a lavorare con l’idea di ambiente, e a maneggiare meglio la multimedialità e la comunicazione non sequenziale (per un filologo classico, una conquista!). E poi, qualche anno dopo, i blog ed i forum e le chat: che davano forma e accesso a una fantasia comunicativa propria delle età più giovani. Mentre le ore e i programmi di informatica, a scuola, si consolidavano, mentre si tentavano delle integrazioni tra lezioni in presenza e materiali online, mentre le scuole avevano quasi tutte, ormai, il loro sito Web (ma mica tutte tutte ancora oggi, eh!), una nuova ondata di comunicazione informale si proponeva.

La vera rivoluzione, però,è più vicina nel tempo: il social, combinato col wireless. Una rivoluzione secca, netta, che giunge in una scuola in difficoltà e nella quale molti rimpiangono ipotetici bei tempi andati, caratterizzati da rigore e severità. Ma la rivoluzione arriva, perché passa per i suoi vettori, i ragazzi. Con tutti gli effetti connessi, che illustro con un ricordo. Una primavera recente, ho fatto un viaggio in treno da casa mia a Bologna, attorniato da una comitiva di studenti, con le loro due accompagnatrici sedute davanti a me. Ho potuto fare l’insegnante in incognito, insomma. Bene: l’attività principale dei ragazzi era interagire su Facebook con i compagni che stavano a scuola, che stavano, in quel momento, in classe. La più giovane delle loro insegnanti notava che, così, i ragazzi si distraevano dalle lezioni. La sua più anziana collega le rispondeva che, a suo ricordo, lei si era sempre e parecchio distratta a lezione (annuivo mentalmente), dedicandosi a scrittura, diaristica, confezionamento di bigliettini, fantasticherie varie.

Condivisione del cambiamento

Voglio dire, inutile perdere tempo a vietare telefonini. Meglio costruire le buone maniere del mondo coi telefonini. Le buone pratiche coi telefonini, e con quello che c’è. E già che ci sono, continuo col catalogo delle inutilità. Inutile pensare che gli allievi non facciano le versioni per casa copiandole dalla Rete. Meglio saperlo, e cambiare sistema, usare la Rete per fare le versioni (magari insegnando a maneggiare il Perseus Project). Inutile pensare di riuscire a perquisire tutti gli allievi per fare la versione in classe senza copiature. Meglio costruire nuovi modi per intendere e lavorare sui testi. Inutile rimpiangere la bella lezione frontale. Meglio condividere tutti i mezzi di espressione che abbiamo per interagire di più a lezione, per segnalare cose su cui tornare, per plasmare diversamente metafore, concetti, illuminazioni. In tutto questo, la scuola è per sua natura sempre un po’ in ritardo rispetto alle novità. Inevitabile. Ma non è in ritardo rispetto alla condivisione, alla distribuzione, all’esplorazione. Senza pensare all’iPad e ai suoi parenti: c’è ancora chi a casa non ha un computer, chi non ha un notebook. E c’è chi lo usa solo per poche cose. Ecco, per loro il lavoro della scuola è insostituibile. Certo: tutto questo, ma, intanto, anche un processo di reale condivisione di cambiamenti nei paradigmi culturali.

Altrimenti… altrimenti capita com’è successo a me, in una classe, negli ultimi giorni di scuola. Dopo un anno di latino col Perseus, con i testi condivisi su Google Documents, una ragazza di quelle brave mi ha detto: «Bello, prof, ma perché non facciamo più versioni, come una volta?». Che potevo risponderle? Ho fatto così: «Certo. A patto che tu stia senza il cellulare e Facebook per tutto l’anno scolastico». Mi ha guardato strano. Una proposta impossibile, ovviamente. Appunto.

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