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Tre versioni di innovazione

05 Luglio 2007

Tre versioni di innovazione

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Siamo portati a credere che la capacità di innovazione di un Paese sia la sua capacità di produrre idee. Ma la realtà è più complessa e, se l'Italia vuole candidarsi a sostenere la sfida della società della conoscenza, è necessario riflettere su scenari più profondi

Qualche giorno fa ho avuto modo di partecipare ai Cantieri Creativi, un incontro organizzato e presieduto dal ministro Giovanna Melandri, che aveva – tra gli altri – il merito di raccogliere nello stesso luogo e nella stessa giornata molte delle menti che in Italia si occupano di innovazione. Nonostante il tempo limitato a disposizione dei relatori, ci sono stati molti spunti interessanti sia per il pubblico, sia per gli addetti ai lavori.

La mia impressione, ascoltando la sequenza di pareri e suggerimenti, ha confermato l’ipotesi iniziale di vivere in un Paese con tanta voglia di innovazione, ma che deve capire bene come gestirla e come mettere in moto i circoli virtuosi. Ma, come ben sanno i cinesi (inventori del detto “se vuoi una buona risposta, fai una buona domanda”) e i problem solver (che per parafrasare il detto cinese hanno scritto molti libri di teoria), tutto dipende da come ci descriviamo il problema. E, secondo me, l’errore più classico è preoccuparsi di aumentare e favorire i processi creativi. O meglio, non è un errore in sè, assolutamente. Ma è un incentivo che potrebbe non avere alcuna relazione diretta con la soluzione che stiamo cercando.

Il magico mondo della creatività e dell’innovazione

C’è molta letteratura sul tema, e buona parte di questa letteratura si occupa di definire dal punto di vista di diverse discipline quale sia il contenuto della creatività e dell’innovazione. Per un rapido (e utilissimo) compendio, si può sfogliare La creatività a più voci, curato da Annamaria Testa e con illuminanti contributi multidisciplinari. Ma per costruire una base di ragionamento comune, è sufficiente cominciare a distinguere banalmente i due termini creatività e innovazione. Il primo è per definizione il processo creativo di avere delle idee, che di per sé non sono nè buone nè cattive. Le idee spesso sono punti di vista, modi di vedere o rivedere le cose, a volte cose nuove altre volte materiali per future cose nuove. L’innovazione, invece, può avere per contenuto un processo (fare qualcosa che già si fa, ma in modo nuovo) o un prodotto finale (fare qualcosa di nuovo) ma descrive sempre un processo. Un processo che la spesso illuminata divulgazione yankee descrive come: bringing ideas to life, portare le idee alla vita.

Se accettiamo questa banalizazzione, per ragionare sull’innovazione (e quindi capire come innescarci intorno un processo virtuoso) dobbiamo esaminare le tre distinte fasi del processo di innovazione all’interno di un sistema Paese. O all’interno di una organizzazione aziendale, dato che dinamiche sono le stesse pur cambiando qualche variabile quantitativa.

Quantità delle idee, qualità delle idee

Il tipico approccio semplice alle problematiche dell’innovazione tende a incoraggiare e moltiplicare l’apporto creativo all’interno di un sistema Paese. Questa strategia risponde alla domanda “abbiamo abbastanza idee?” che può essere declinata in “condividiamo e mettiamo in circolo abbastanza idee?”. La fase creativa è la prima fase dell’innovazione ma non esaurisce il discorso sull’innovazione. Su questo aspetto, anche per quanto riguarda l’Italia, io sarei abbastanza tranquillo: non sono le idee che ci mancano, o almeno il numero di idee in circolo non mi sembra la nostra priorità. L’intera società occidentale (e rapidamente ne sta approfittando anche buona parte del mondo orientale) ha oggi una infrastruttura che mette in circolo conoscenze ed idee, che permette ad ogni individuo di partecipare al processo di creazione e condivisione e che permette l’accesso e la moltiplicazione delle cononoscenze.

Internet è il grande sistema operativo della società della conoscenza. Non tutti ne abbiamo ancora uguale disponibilità nel mondo, non tutti ne possiamo sfruttare ugualemente le potenzialità (chi legge solo l’italiano, ad esempio, ha accesso solo alle idee espresse nella nostra lingua), ma gli ultimi dieci anni insegnano che le cose migliorano rapidamente. Ci sono molti studi su come avvengano i processi creativi attraverso i network digitali. Il più illuminante, a mio modo di vedere, è quello di R. S. Burt (Social Origin of Good Ideas) che osserva come individui connessi con gruppi diversi (poichè Internet è interest driven e ognuno di noi è un contenitore di interessi differenti) mediano la comunicazione tra i vari piccoli mondi e tra i vari ambienti. Questa mediazione è un capitale sociale che porta con sé un vantaggio competitivo, in cui i mediatori possono elaborare progetti che integrano le diverse maniere di pensare o di comportarsi. Burt lo sintetizza così:

Non è creatività che viene dal profondo dell’abilità intellettuale. È creatività che viene da un modello di import-export.

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Altri studi, soprattutto dei soliti fisici teorici che trovano opportunità e modelli nell’analizzare il mondo con la metafora di rete (e che hanno sempre maggiore potenza di calcolo a disposizione), stanno cercando di descrivere i pattern. Si dimstra da più parti che esiste una relazione diretta tra quantità di ideee in circolo e qualità delle idee (si veda, a mero titolo di esempio di ragionamento, Quality as a function of quantity in electronic brainstorming). E si sta parlando sempre più di Effetto Medici.

L’Italia, da questo punto di vista, non mi pare in difficoltà. Abbiamo problemi di accesso e di banda larga, che pure si potrebbero risolvere più in fretta per far partecipare sempre più cittadini. Usiamo mediamente male l’infrastruttura (quanta ricerca condividiamo in Italia?). Abbiamo un grande problema di divulgazione sociale della complessità. Ma nonostante tutto ritengo che siamo oltre la soglia minima di una società viva in grado di reagire. Questo non vuol dire che bisogna trascurare il problema, anzi. Si può e si deve migliorare. Però forse bisogna cominciare ad affrontare il tema pensando un po’ di più alla fase due e alla fase tre, che pure porterebbero benefici indiretti a questo riguardo.

Teoria e pratica del grano e del loglio

Se accettiamo che un Paese abbia un numero sufficiente di idee in circolo, la fase due del processo di innovazione e quella costituente del portare le idee alla vita. Se tutti quanti corcoliamo con nuove idee ma non riusciamo a metterle in pratica, non c’è innovazione. E qui il ruolo del Sistema Paese (e in piccolo del Sistema Azienda) diviene cruciale. Il punto, nella fase due, non è produrre idee. Piuttosto è: saperle accettare, valutare (quindi avere una capacità di misurarne l’efficacia corrispondente a una visione del mondo aperta all’innovazione) e quindi saperle realizzare. Spesso una buona idea funziona peggio di un’idea meno buona, perchè è il modo in cui vengono strutturate che fa la differenza.

Qui i settori di intervento diventano molti: un Paese che voglia caratterizzarsi come innovativo deve appoggiarsi innazitutto su presupposti solidi di equità. Una buona idea può venire da chiunque, poichè la sua qualità intrinseca non è legata necessariamente al ruolo dell’ideatore. Un sistema che metta le idee le in circolo e che sappia valutare quali idee incentivare, non può essere costruito su delle barriere di accesso. Se così fosse, sarebbe semplicemente un harakiri. Dato un sistema equo, il vero problema è come aumentare le risorse disponibili (fondi per la ricerca e per la sperimentazione, senza delegare completamente il ruolo al sistema produttivo delle aziende), quindi come ripartire le risorse in modo da incentivare le idee migliori, indipendentemente dal fatto che vengano da Agamennone o dal suo guardiano dei porci. Qui il funzionamento dell’Università italiana, con le sue barriere e i suoi illogici schemi, potrebbe essere un ottimo esempio di cose da non fare.

Da questo punto di vista, ridurre le barriere e definire regole eque, in un sistema Paese è compito della politica. Ma a questo punto potrebbe essere abbastanza chiaro che possiamo favorire la moltiplicazione delle idee quanto vogliamo, ma non abbiamo risolto nulla se non veniamo a capo del problema di garantire loro un destino. Il mantra potrebbe essere: se un politico ti parla di innovazione, chiedigli di abbattere barriere e di lavorare sulle regole. Perchè è l’unico modo sensato di dare respiro a un Paese moderno.

La nemesi dell’innovazione

L’innovazione è uno dei pochi concetti che racchiude dentro di sè la propria nemesi. Le novità non sono facili da accettare e ogni innovazione si accompagna con una resistenza all’innovazione. La resistenza alle innovazioni è stata ampiamente codificata e siamo persino in grado di tracciare una scala valoriale per definire in quali contesti il nuovo viene accettato con maggior facilità (si vedano a esempio studi come Global diffusion on interactive networks: the impact of culture). Ora, se guardiamo al “vantaggio competitivo” degli Stati Paese, il circolo virtuoso diventa molto più rapido ed efficace se la società è in grado di assimilare, accettare e rimettere in circolo l’innovazione. Se accettiamo che la fase creativa da sola non serve, la fase due (quella di selezione e realizzazione) e la fase tre (ovvero l’insermento dell’innovazione nella conoscenza quotidiana) diventano realmente sostanziali per lo sviluppo di un Paese.

Potrei suggerire, in merito, di riflettere sulla lentezza in cui in Italia c’è (e c’è stata) la diffusione delle tecnologie digitali. Ma se, consolidato uno scenario, vogliamo davvero capire a che punto siamo, possiamo leggere il Rapporto Censis sull’Innovazione (o, per i più pigri, l’articolo di Repubblica che lo racconta).

L'autore

  • Giuseppe Granieri
    Autore, docente ed esperto di comunicazione e cultura digitale.
    Il suo bookcafe.net, fondato nel 1996, è stato uno dei primi siti letterari e blog italiani. Ha collaborato con testate come Il Sole 24 Ore, l’Espresso, La Stampa e firmato diversi saggi per l'editore Laterza.

    Foto: Enrico Sola.

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