Immaginate di scrivere un manuale o un saggio scientifico e a lavoro terminato inserire volutamente qua e là degli errori. Vi chiederete perché mai dovrei fare una cosa così autolesionista?! Al massimo la preoccupazione dovrebbe essere quella inversa; ne sa qualcosa il mio editore, dato che sono capace di rallentare per settimane l’uscita di un mio libro con continui interventi di rifinitura sulle bozze.
Eppure questa strana perversione di infilare errori esiste da tempo ed è utilizzata per individuare più facilmente le copiature da parte di terzi. Prendiamo come esempio il colophon della prima edizione (1970) di Alternative London di Nicholas Saunders. Si legge:
Al fine di tenere traccia di illecite riproduzioni dei contenuti, ho inserito qua e là errori minori.
Questa prassi però è diventata ancora più diffusa con l’avvento dei contenuti digitali e ancora più con la diffusione delle banche dati. I database, come abbiamo già mostrato più volte parlando di open data e temi limitrofi, sono in effetti strane bestie da tutelare, specie quando si tratta di semplici agglomerati di dati riorganizzati senza criteri particolarmente creativi e originali.
Negli USA si applicano comunque il copyright quando possibile ed eventualmente i principî sulla concorrenza sleale; in Europa ci siamo inventati uno strano diritto sui generis che tutela l’investimento rilevante effettuato dal costitutore di una banca dati.
Vista la debolezza di questi strumenti giuridici quando li utilizziamo per tutelare dati che sono rilevabili facilmente da chiunque (si pensi ad alcuni dati geografici rilevabili con un semplice smartphone dotato di GPS), ecco che i titolari ricorrono al vecchio stratagemma dei cosiddetti errori civetta. Così hanno una prova (anch’essa debole a mio avviso) per mostrare al giudice che effettivamente i dati sono stati estratti dal loro database.
Ci sono casi in cui questa prassi ha effetti bizzarri, come ad esempio la creazione di città inesistenti sulle mappe. In un post di Gizmodo vengono citati i casi più curiosi: dalla inesistente Agloe (fake cartografico risalente già agli anni ’30), alla più recente Moat Lane (strada inesistente nell’area nord di Londra), passando per Argleton (cittadina fantasma rimossa da Google Maps nel 2009).
Come suggerito indirettamente nel post, un’utile cartina al tornasole per scovare casi del genere è un confronto con OpenStreetMap, la mappa libera del mondo creata da una vasta comunità di utenti. Lì nessuno ha interesse a praticare questo giochetto e poi gli occhi che verificano sono molti di più e molto più distribuiti.
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