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Content Design: cinque risposte su come progettare buoni contenuti e soddisfare il cliente

13 Dicembre 2019

Content Design: cinque risposte su come progettare buoni contenuti e soddisfare il cliente

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Per chi comunica nell’era digitale, scrivere non basta più. Occorre farsi trovare, diversificare media e canali, saper quotare se stessi e il proprio lavoro al giusto prezzo. Inevitabile porsi tante domande. Qui rispondiamo a qualcuna.

1) Ma che cos’è esattamente un contenuto?

I dizionari ci restituiscono una definizione di base che più o meno suona come “ciò che si trova dentro un recipiente”. La partenza non è il massimo: un termine che si definisce in funzione di un altro. Il quale, per altro, non ricambia il favore: il lemma, ingrato, non cita a sua volta contenuto come sua controparte.

Contenuto quindi come qualcosa che sta dentro a qualcos’altro. Chi viene prima?

Il tema potrebbe sembrare una pura speculazione, o al limite l’argomento di conversazione di un pranzo di lavoro di addetti alla comunicazione. Noi pensiamo sia un tema su cui valga la pena fermarsi un momento, distinguendo il contenuto nella sua percezione da parte di chi lo usa e da parte di chi lo produce.

Quando siamo utenti, usiamo un contenuto senza nemmeno notare che lo sia: abbiamo un problema, un interesse da approfondire e ricorriamo agli strumenti e canali di cui disponiamo per risolvere il nostro bisogno.

Tendenzialmente, non facciamo caso al contenitore, se non:

  • quando non funziona, o funziona male;
  • quando ci colpisce particolarmente in qualche suo aspetto;
  • quando a nostra volta progettiamo o costruiamo contenitori, ciò che è noto come ossessione da credits (“chi ha fatto questa meraviglia/schifezza?”).

Il contenuto è ciò che soddisfa il nostro bisogno; che risieda in un sito web, in un’applicazione, in una brochure, in un video, in un’infografica ci è indifferente, se usandolo abbiamo raggiunto il nostro risultato.

Quando invece siamo quelli del caso c), quindi siamo professionisti del contenitore, tendiamo a vederlo come elemento finale del nostro agire. Questa situazione di subordine, paradossalmente, tende a essere accettata anche da parte di chi si occupa di contenuto: il mondo in cui lo si produce è un mondo di contenitori, a cui il contenuto, nei casi migliori, si adatta. Una sorta di applicazione della legge di Murphy sull’incastro: taglialo grosso e spingilo a calci.

È questa la conseguenza del fatto che chi si occupa di contenuti arriva spesso dopo: a un certo punto della sua giornata riceverà indicazioni, specifiche, richieste, con vincoli determinati da chissà chi, chissà cosa, e soprattutto chissà perché, senza essere stato chiamato in causa. Esegue.

Disegnare il contenuto significa proprio avere una comprensione del bisogno da risolvere, degli obiettivi da raggiungere, dei vincoli entro i quali agire, che è proprio ciò che il design si prefigge.

2) Come faccio a sapere quanto valgo e quanto vale il lavoro che mi ha chiesto il cliente?

Stimare è un piccolo-grande progetto in sé. È un’abilità di valore altissimo, risultato di diverse altre, tra le quali il sapere definire il nostro valore, e il nostro prezzo.

Definire il nostro valore

Quanto valiamo? Il fatto è che essere appassionati della materia è una dannazione, tenderemo sempre a sentirci in colpa per il fatto di chiedere conto del nostro apporto in termini di denaro. Ma Design Is a Job, e se valore deve essere, lo sia per tutti, altrimenti si mette a rischio anche quello generato per il cliente: scontenti noi, lavoro mal fatto, scontento tu.

Se giochiamo la partita della giusta remunerazione del nostro valore, allora il punteggio sarà determinato dalla sua entità economica, che non deve essere esagerata, ma commisurata al valore che produciamo. Il testo di Alan Weiss Value-Based Fees si sottotitola non a caso How to charge – and get – what you’re worth: come essere pagati per ciò che valiamo, non un centesimo di più (se poi ci scappa, vabbè). È un approccio estremamente etico, e infatti l’etica è al centro dell’impianto del suo testo: una piattaforma in cui siano chiari a entrambi, consulente e committente, i presupposti e le regole su cui reciprocamente ci ingaggiamo. I presupposti e le regole.

Sapere prima qual è il valore che possiamo portare a un cliente è la nostra principale arma, che non vorremmo nemmeno chiamare tale, perché non siamo in guerra; è il seme che portiamo in dote a un orto. Come sarà questo orto, grazie a noi? Qual sarà il vantaggio di coltivarlo insieme? Darà ortaggi più gustosi? Più grandi? Più colorati? Cresceranno in meno tempo? Saranno più resistenti? Stiamo consegnando solo ortaggi, o la capacità di coltivarli? Sarà lo stesso che avresti coltivato tu, ma non ne hai tempo, o voglia?

Parti da queste riflessioni e da queste letture per iniziare a darti una misura.

3) Il cliente non ha le idee chiare sull’organizzazione del sito e non sa dirmi quello che vuole. Che faccio?

Se siamo riusciti almeno a definire i modelli di contenuto e i flussi che li mettono in relazione, siamo pronti per finalizzare il tutto in un albero che definisca l’organizzazione dei contenuti. L’albero dei contenuti rappresenta la mappa di un sito, espressa secondo le relazioni gerarchiche tra i singoli elementi che lo compongono. Definisce quindi la geografia del progetto, la sua organizzazione: dove si trovano le strade, gli edifici e le vituperate aiuole all’interno di ciascun giardino.

Una delle piaghe dell’architettura dell’informazione è la sua banalizzazione: un organigramma di contenuti che, seguendo cliché che ci portiamo dietro dall’alba dei tempi del web, espone chi siamo, cosa facciamo e come contattarci. Ah, non dimentichiamo le News. Noi siamo qui, venite a vederci. I nostri documenti stanno in fondo a questo snodo, veniteli a prendere. Il nostro prodotto è questo, vedete voi se vi può servire. Insomma, l’architettura dell’informazione corrisponde ancora troppo spesso alla visione che un’organizzazione ha di sé o, peggio ancora, a come i contenuti stessi sono organizzati nei file system della rete aziendale, o nella rete di neuroni di chi ci lavora.

Pensiamo non più a “chi siamo”, ma a “cosa possiamo fare per te”; non esporre, ma comunicare, addirittura narrare: come può migliorare, anche di poco, la tua vita con un mio contributo; come posso renderti questa ricerca facile, piacevole. Trasparente.

Steve Krug, l’Italo Calvino dei nerd di prima generazione, scrisse ante litteram Don’t make me think, tutt’ora un eccellente testo di partenza per inquadrare un approccio di buon senso all’usabilità delle interfacce. Il “non farmi pensare” è centrale: se teniamo a mente che alle persone interessa raggiungere un obiettivo, che quell’obiettivo può essere raggiunto attraverso i nostri contenuti, allora ecco che ciò che facciamo deve puntare alla trasparenza: ciò che facciamo deve scomparire.

4) Che cosa devo sapere sui dati prima di pensare al design dentro il quale li collocherò?

“I dati sono la Svizzera del design”

Uno dei nostri nemici più agguerriti è il gusto personale, nostro e dei nostri committenti. I dati informano i nostri processi di design, ma la loro potenza si estende anche nella costruzione di un territorio di discussione neutrale, in cui i “secondo me”, i diktat, le sensazioni si scontrano con i fatti.

Al crescere dei dati, cresce l’ignoranza

Viviamo nell’epoca storica di maggiore disponibilità di dati. Ne abbiamo e ne possiamo avere più di quanti ne servano, un’abbondanza dalla quale deriva un rischio di bulimia, una perversa dinamica per cui più raccogliamo, più vogliamo raccogliere. Come sapremo quando “abbastanza è abbastanza”? Un vincolo a priori è il tempo che possiamo dedicare alla ricerca, che di solito fa capo alla madre di tutti i vincoli, il budget.

“Torturati a sufficienza, i dati diranno ciò che vuoi tu”

I dati non sono informazioni. Sono sintomi, evidenze che necessitano di essere interpretate; i bias cognitivi sono in agguato come il diavoletto rosso sulla spalla dei cartoon, a dirci che un dato è una verità incontrovertibile su cui prendere decisioni. “I dati ci dicono che questa pagina ha una frequenza di rimbalzo altissima, non funziona”, vale quanto “I dati ci dicono che questa pagina ha una frequenza di rimbalzo altissima, funziona perfettamente”. Dipende da tutte le premesse all’esistenza di questa pagina: perché e per chi esiste, quali sono i suoi obiettivi, in quale fase del viaggio dell’utente si innesta e via discorrendo.

Un esempio: il team di user research del sito gov.uk ha verificato che il costo è l’informazione più ricercata nell’ambito delle ricerche di chi deve fare il passaporto; ha di conseguenza disegnato la pagina in modo che questa informazione fosse tra le prime disponibili, apparendo così anche nello snippet di ricerca di Google. La frequenza di rimbalzo di questa pagina potrebbe essere altissima, o addirittura questa pagina potrebbe avere visto un drastico calo di visite, dato che l’informazione principale è già stata data fuori dal sito, soddisfacendo il bisogno nel modo più rapido possibile. È un caso in cui dati apparentemente negativi sono in realtà indicatori di successo.

5) Come faccio a mettere ordine nella babele di contenuti web che il cliente ha già prodotto senza partire da un design?

In tutte le organizzazioni con un minimo di anni alle spalle, il corpo dei contenuti prodotti (o mai prodotti, ma potenzialmente esistenti) è frammentato, sparso, amorfo, liquido. Fattori come i momenti in cui sono stati concepiti, le persone che se ne sono occupate, le agenzie che ci hanno lavorato fanno sì che si siano formati labirinti di grotte ricche di concrezioni stalagmitiche di cui nessuno, a un certo punto, ha più la mappa.

Il primo passo è creare o ricreare questa mappa. Per quanto riguarda i siti web, l’inventario dei contenuti è uno strumento indispensabile in questa fase; il modello è semplice: di base si tratta concettualmente di una griglia divisa in righe e colonne, in cui riportare la mappa del sito web su cui stiamo per lavorare e, per ogni pagina, alcune informazioni, sia di tipo quantitativo che qualitativo. Al primo impatto, l’idea di navigare un sito e ricrearne la struttura a mano, per di più in un foglio di lavoro e non in mappe concettuali graficamente appaganti, può sembrare qualcosa di noioso. In effetti, lo è, ma preso nel modo giusto ha due effetti fondamentali per il progetto:

  • conoscere in modo accurato qual è la struttura del sistema di contenuti alla base del progetto;
  • prendere confidenza con il contenuto, sia pagina per pagina, sia nelle relazioni che le pagine hanno tra loro.

Un sito web visto dall’alto ci può dire tanto su come l’organizzazione pensa se stessa e il suo rapporto con l’utilizzatore finale. I primi risultati sono però nella sfera della tangibilità estrema. Con un inventario possiamo infatti renderci conto di:

  • quanto contenuto esiste; avere un’idea dell’ampiezza dei contenuti rende noi e il nostro committente coscienti di ciò che è stato prodotto fino a oggi e ci aiuta a dimensionare lo sforzo nella loro gestione;
  • quali tipi di contenuto esistono; il concetto di tipo si declina almeno su due livelli: il modello di pagina (template) e il tipo di asset (testo, immagine, video, allegati);
  • lo stato di ogni singolo contenuto; troveremo contenuti ancora fondamentali, altri inutili, altri “scaduti” e potenzialmente dannosi, altri da aggiornare.

I passi per creare un inventario sono:

  • creare il proprio modello di inventario;
  • mappare lo scheletro del sito;
  • approfondire l’analisi di dettaglio di ciascuna pagina, come nella figura qui sotto.

Lo schema di base dell’inventario dei contenuti di un sito web

Lo schema di base dell’inventario dei contenuti di un sito web.

Nella sua versione più semplice, il modello deve mappare almeno:

  • il titolo della pagina (una colonna per ogni livello di navigazione, a partire dalla home page);
  • l’URL.

Questo tipo di struttura può essere dedotto anche in modo automatico, usando strumenti che navigano il sito con i loro spider e ci restituiscono una mappa variamente rappresentata, insieme alla dimensione della nostra ansia in termini di complessità quantitativa e del tempo che ci aspettiamo di dedicare al compito. Ma a noi, oltre a questo, interessano gli aspetti strategici del contenuto, che nessuno strumento automatico ci può restituire. A seconda quindi degli obiettivi che abbiamo sul progetto e degli ambiti che vogliamo indagare, possiamo arricchire il modello di colonne pertinenti, in primis:

  • modello/tipo di pagina;
  • classificazione ROT (Redundant, Outdated, Trivial).

Modello/tipo di pagina

Identifica il tipo di contenuto della pagina, per esempio: home page, indice di sezione, articolo, scheda prodotto, FAQ…

ROT

È l’acronimo di Redundant, Outdated (o Out-Of-Date, o Obsolete), Trivial.

Corrisponde a un tipo di analisi qualitativa estremamente importante rispetto alla bontà di un contenuto; per ogni pagina, dovremo definire se appartenga a una delle tre categorizzazioni e decidere cosa fare di conseguenza. Se non appartenesse ad alcuna, ovviamente, l’azione sarebbe semplicemente “mantenere com’è”. È importante approfondire ciascuno dei termini e comprendere come… comprendere se un contenuto sia ROTto.

Redundant

False friend, è usato nell’accezione di superfluo. Si tratta per esempio di contenuti relativi a prodotti o servizi che non esistono più, campagne terminate da tempo, news che annunciano eventi o situazioni già passate. Carcasse. Se un contenuto è redundant, è di solito eliminabile senza traumi per nessuno nell’organizzazione.

Outdated

Letteralmente: obsoleto, sorpassato, scaduto. Tema spinoso da quando è nato il web, la validità del contenuto sembrerebbe un fattore apparentemente semplice da gestire, ma è nei suoi dettagli che si nascondono le insidie.

Nell’ambito della creazione dell’inventario, verificare l’attualità delle informazioni è quindi un grande valore. La domanda che ci sorge immediatamente è: siamo in grado noi di giudicare un contenuto che probabilmente non abbiamo creato, o che magari è in carico a un responsabile specifico nell’organizzazione? La risposta è no, e per questo solitamente si coinvolge il cliente lasciandogli onore e onere di giudicare ogni pagina sotto questo aspetto.

Trivial

È il concetto di “inutile”, nel senso stretto di “non utile” (ci si perdoni la ridondanza, e non nel senso di redundant). È il giudizio più complesso da dare perché, diversamente dai due precedenti parametri, il concetto di utilità può avere tante sfumature differenti. Chi decide che questo contenuto è inutile? Su quali basi?

Il primo dato quantitativo da considerare può essere il numero di accessi che la pagina conta; se sono al di sotto di una certa soglia, potrebbe significare che la pagina non serve a nessuno. Potrebbe, non è infatti detto che la sua invisibilità sia necessariamente indice di inutilità; potrebbe anche essere nascosta dalla navigazione, o avere problemi di indicizzazione; è importante fare un controllo in più sui dati di accesso, se avessimo questo dubbio.

Se il contenuto non dovesse passare il vaglio, preoccupiamoci, prima di eliminarlo, di verificare che non risponda a prescrizioni normative, a policy di gruppo o ad altri vincoli simili. L’esiguo numero di visite per esempio non giustifica l’eliminazione della pagina relativa al trattamento dei dati personali: può bastare una sola visita “di peso” a giustificare quella pagina.

A fianco di questa colonna è utile inserire una colonna note che spieghi eventualmente le ragioni della decisione presa.

Questo articolo richiama contenuti da Content Design.

unsplash-logoImmagine di Joanna Kosinska

L'autore

  • Nicola Bonora
    Nicola Bonora, nell'arco di 25 anni, ha lavorato in azienda, da freelance e come imprenditore disegnando, curando, gestendo o semplicemente vendendo progetti online per realtà di ogni genere e dimensione. Il suo obiettivo è rendere semplice la complessità dei sistemi applicando processi di design. Ha elaborato un modello originale per insegnare le buone pratiche della progettazione del contenuto digitale. Oggi è Digital & UX Strategist per Websolute.

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