Il fermento di umanità connessa che osserviamo in questi giorni, in Tunisia e in Egitto, ha la tragicità e il coraggio di chi vuole trasformare la propria voce pubblicata in opinione pubblica. Una opinione che non si fonda più nell’immaginario pubblico costruito dalla stampa e dalla televisione di un Paese che, probabilmente, non riesce a dare visibilità a un dissenso diffuso, che non riesce a rappresentare un malessere condiviso. Allora i cittadini provano a rappresentarlo da soli e ad auto-organizzarsi attorno alle possibilità che la rete, oggi, rende disponibili.
Relazioni visibili
Rete non come strumento: la tecnologia, semplicemente, abilita. Piuttosto rete come luogo di visibilità delle relazioni sociali e delle vite e dell’appartenenza di queste vite a territori reali e non immaginari. Visibilità di una solidarietà sociale trasversale che viene messa in connessione e mostrata attraverso la capacità di comunicarsi delle vite connesse. Scrive Simon Tisdall su The Guardian:
Una nuova coalizione di studenti, giovani disoccupati, operai, intellettuali, donne e tifosi di calcio connessi tra loro grazie a Twitter e Facebook ha organizzato una serie di manifestazioni in molte città egiziane.
A questo va aggiunta la possibilità informativa diffusa. Non quella selezionata e “curata” dei giornalisti, non quella verificata e certificata, ma quella dettata dall’urgenza di comunicazione, che rimanda alla presa diretta sulla realtà vissuta e che passa, ad esempio, da videofonini a YouTube con istantaneità o dai gridi in piazza ai tweet. Così veniamo a vedere, ad esempio, le immagini non montate delle proteste egiziane con dei ragazzi che sfidano una camionetta dell’esercito ri-generando l’immaginario di Piazza Tien An Men. O vediamo le informazioni nelle ore calde della situazione Egiziana fluire su Twitter con hashtag come #Egipto, #egypt o #j25, #Jan28.
Partecipazione
La rivoluzione non la fa il web. La fanno le persone, ci ricorda Jillian C. York, perché il web non è garanzia di partecipazione e azione: «I also think it’s a bit irresponsible of Western analysts to start pontificating on the relevance of social media to the Tunisian uprising without talking to Tunisians». Come twitta Alaa Abd El Fattah: «hey frigging american analysts how about we let tunisians, who actually lived what happened decide how relevant twitter and wikileaks where?». Eppure non possiamo negare che «non c’è tentativo di rivoluzione che non sia stato accompagnato da un significativo tasso di conversazione sulla rete e nello specifico su siti di social network come Facebook e Twitter». Sarà per questo che il governo egiziano nella notte tra il 27 e il 28 gennaio ha chiuso l’accesso a tutta Internet e sconnesso la telefonia cellulare, dopo aver oscurato e censurato martedì Twitter, e giovedì YouTube e Facebook, nel tentativo di rendere invisibile quel dissenso che al mondo stava diventando evidente e per evitare che la Rete potesse essere un modo significativo di auto-organizzazione.
Lo ha fatto grazie ad una legge nazionale che consente al governo di gestire la rete e attraverso la semplice convocazione dei cinque fornitori di connessione Internet che gestiscono la nazione che hanno semplicemente obbedito, con buona pace delle retoriche che attribuiscono alla Rete il potere assoluto di evitare ogni blocco censorio e di comunicazione. Non solo è stato possibile togliere la voce pubblica diretta del dissenso ma eliminare le connessioni sociali che lo mostravano e alimentavano. Resta il racconto “forte” delle televisioni, come Al Jazeera, che mostrano la crudezza degli scontri e il Cairo in fiamme. Anche qui: fuori dalla retorica di opposizione tra vecchi media generalisti e social media orizzontali, siamo di fronte a una funzione integrata nel mostrare la sfera pubblica in divenire.
Il silenzio che non regge
La rivoluzione non la fa il web, ma sembra passare da lì. Il silenzio fatica a essere mantenuto perché esiste una polifonia di voci che in modi diversi cercano di essere ascoltate, raccolte e diffuse pubblicamente in rete anche se non possono pubblicarsi da sole. Basta guardare all’attività su Twitter di jan25voices che rilancia con i suoi tweet informazioni raccolte in modi diversi nel tentativo di superare lo sbarramento Internet egiziano:
We are using phones and other means to speak with Egyptians behind the blocked internet, tweeting their words in real time. contact: jan25voices(at)gmail.com
E poi c’è il modo indiretto che si ha in rete di seguire il racconto e di costruirne uno. Un modo che è connesso e in tempo (informativo) reale. Anche questo è un lato di quanto accade in questi giorni e ci mostra una natura diversa della costruzione e fruizione dell’informazione anche nei luoghi più lontani dda quelli dell’azione. Come il racconto dell’Egitto “staccato” da Internet che ha lanciato in Italia Luca Alagna (aka Ezekiel) su FriendFeed e che mostra come si possano seguire accadimenti assieme ai “friend”, commentando “a caldo” ogni news che viene condivisa da una ricerca distribuita, condividendo posizioni e opinioni. Senza pretesa assoluta di equilibrio e di correttezza politica, con passione e coinvolgimento.
Dietro all’impegno
C’è da capire cosa ci sia dietro a forme di “impegno” come queste e di una volontà a diffondere le informazioni in questo modo e con questa passione comunicativa; e con una tensione etica che è, semplicemente, il prodotto di un riferimento a valori condivisi da parte di un gruppo connesso di persone. Se lo riconduciamo all’intreccio tra il nostro contesto informativo e una volontà partecipativa alla sfera pubblica, allora possiamo concordare con Luca Alagna – con cui ho parlato seguendo lo svolgersi degli accadimenti – che dipenda «dalla possibilità di esprimersi pubblicamente e quindi di incidere reciprocamente sulla formazione della notizia, in contrapposizione al dominio incontrastato della classica tv nazionale unidirezionale. Accanto a questo c’è la voglia di approfondimento informativo, attivata da una percezione di inadeguatezza della stampa italiana persa troppo spesso in questioni marginali o nel teatrino della politica».
C’è qui tutta la voglia di sperimentare una nuova dimensione dell’informazione prodotta e consumata in forma collaborativa e il fatto che la realtà delle forme aperte dai siti di social network e dall’uso connesso della rete «hanno galvanizzato i punti di contatto emotivi tra gruppi anche molto lontani e c’è un aumento di empatia che io vedo in senso positivo perché aiuta a conoscere anche chi è molto lontano o diverso da noi». Sappiamo che è così, anche se non in senso assoluto. Non sembra, ad esempio, che le vicende italiane siano riuscite a produrre nella rete forme che non andassero oltre l’esaltazione della satira e qualche sparuta indignazione di maniera, come se la spinta informativa della conversazione si esaurisse in sé, nel suo farsi.
Consapevolezza
La rivoluzione non la fanno il web, i social network e i blog. Però frequentarli, scoprire il modo in cui sono profondamente correlati alla nostra vita, sperimentare i modi di organizzarci attraverso essi, abituarci a pensare orizzontalmente la comunicazione, acquisire la consapevolezza dei limiti di azione ed informazione… sono tutti modi per renderci più consapevoli e far(ce)lo sapere.