A ridosso di ferragosto Eric Raymond, noto esponente del mondo open source, ha diffuso online una sorta di recensione al volume “Free As In Freedom”, la biografia ufficiosa di Richard Stallman curata da Sam Williams — apparso in USA nel 2002 per O’Reilly e lo scorso marzo in italiano presso Apogeo. Chiaramente la recensione non è altro che una scusa per spaziare a tutto campo e nuovamente su questioni comunque importanti: il passato che ha accomunato i due hacker e le profonde differenze recenti, il contesto più generale in cui ha preso corpo l´opera di RMS e la successiva scelta ´messianica´, la validità del suo operato tecnico e l´auto-distruttività delle sue idee morali.
Un saggio che vuole offrire innanzitutto una serie di fatti ed elementi onde meglio localizzare la figura di Stallman nel contesto della cultura hacker anni 70-80. E che sostanzialmente riafferma l´accordo di massima nella battaglia contro la cultura e la pratica del software proprietario, pur ribadendo certe divergenze ormai storiche, come quella tra le definizioni “open source” e “free software”, con netto declino della seconda negli ultimi anni, almeno secondo lo stesso Raymond. Insieme a puntuali critiche su alcune posizioni di fondo equivoche e poco veritiere riscontrate nel libro di Williams. Un testo quindi che merita certamente un´attenta lettura. Eccone perciò di seguito alcuni stralci (in italiano) tra i più interessanti, rimandando alla versione originale inglese per maggiori approfondimenti.
Tratto da “A Fan of Freedom: Thoughts on the Biography of RMS” di Eric S. Raymond, agosto 2003:
La biografia di Richard M. Stallman (RMS) curata da Sam Williams, “Free As In Freedom” (FAIF), è una delle biografie più chiare e sensitive che abbia mai letto. Conosco RMS fin da metà degli anni 1970, quando adolescenti eravamo entrambi fan di fantascienza. Ho conosciuto la sua famiglia. Ho collaborato, discusso e trascorso del tempo con lui per oltre venticinque anni. Pur con gli eventi che dal 1998 ci hanno portato a una specie di rivalità, io e RMS rimaniamo dei vecchi amici. Eppure questo libro mi ha aiutato a comprenderlo meglio. Ciò va detto all´inizio, perché gran parte del resto di questo saggio presenta delle critiche a FAIF. Tali critiche non vanno però intese in maniera ostile. Secondo la mia opinione, la versione di Sam Williams della storia di RMS non risulta tanto errata quanto piuttosto difetta di alcune prospettive cruciali, ad alcune delle quali spero di supplire in questo saggio. Mi sono anzi dedicato a questo lavoro proprio perché ritengo il libro di alta qualità, e quindi meritorio del miglior livello di amplificazione e critica che io possa fornire in quanto storico e amico di RMS.
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Quando Sam mi fece avere il manoscritto originale di FAIF, una rapida lettura rivelò il problema che mi aspettavo, quello che pesava su tutti i resoconti della carriera di Richard fin da quando Steven Levy aveva pubblicato “Hackers” negli anni ´80. L´autore era rimasto parzialmente sedotto dall´oggetto d´indagine — dando troppa retta alla mitologia che RMS aveva creato intorno a se stesso.
Credo sia difficile evitare questa trappola con RMS. E´ una persona intensamente carismatica che ha ricostruito la propria intera esistenza intorno al Grande Messaggio. Qualcuno che tende a proiettare gli stimoli e le certezze della propria vita recente, da convinto evangelista/crociato, nel passato dei suoi anni precedenti. Il racconto di RMS sul proprio passato tende ad essere univoco, narrativo. Non falso, ma con la tendenza a sorvolare con leggerezza su false partenze e incertezze, su crescenti problemi ed esitazioni che erano visibili a quanti tra noi lo conoscevano da molto tempo.
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All´epoca io ero un hacker, e ne conoscevo molti altri. Non fummo per nulla scalfiti dalla “Guerra della Symbolics” che invece ferì profondamente Richard, perché lavoravamo su un terreno diverso — facevamo parte del giro Unix. Subimmo le serie conseguenze della commercializzazione soltanto un paio d´anni dopo l´abbandono di AT&T. Il gruppo del MIT era importante, ma non era affatto l´unico gruppo di hacker al mondo. L´agiografia di Stallman raccontata da Levy ha consegnato implicitamente il resto di noi ad un vuoto di memoria.
La stessa inclinazione di Richard ad enfatizzare l´incidente del driver della stampante rispetto alle conseguenze della Guerra della Symbolics tende a minimizzare il contesto culturale in cui si trovò ad operare — non esistevano soltanto gli hacker del MIT quali Steele, Gosper, Abelson, Moon, ecc. — ma anche altri di tradizioni diverse, gli hacker del mondo Unix, i gruppi dello Xerox PARC e del SAIL.
Dopo avergli spiegato i motivi di questa inesattezza, Sam ha eliminato da FAIF la descrizione di Levy “dell´ultimo vero hacker”. Ma è rimasta quell´inclinazione narrativa che l´accompagnava, soprattutto la tendenza a dipingere Stallman come l´unico collegamento concreto tra quanto esisteva prima di lui e la cultura successiva al 1985. La vera storia non raccontata nel libro non riguarda lo sviluppo individuale della missione di Richard — il racconto del profeta che viene dal deserto messo in scena fin troppe volte. Riguarda piuttosto il modo in cui le scelte di RMS nacquero in maniera organica da una cultura hacker già preesistente, la quale diede forma ai valori stessi di RMS e alla portata delle sue scelte su molti livelli.
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Al pari di Richard, nel 1985 anch´io smisi di lavorare al software proprietario. Ma rimasi silenzioso laddove egli faceva rumore. Aveva trovato la sua bandiera, la sua ideologia, l´ambito da difendere. Ci sarebbe voluto un altro decennio prima di trovare il mio. Nel frattempo, andavo discutendo le sue scelte. Soffrivo anch´io come lui, sentivo che c´era qualcosa di mostruosamente sbagliato con un sistema di produzione del software che mi alienava dal prodotto della mia stessa creatività, che seppelliva il mio lavoro sotto il segreto e le decisioni di una cattiva gestione. Ma consideravo folle il sogno anti-proprietario di Richard, un incubo che avrebbe portato alla fame i programmatori e nessun risultato positivo. Ne discutemmo fino a notte fonda nel corso di vari incontri.
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Di nuovo, la questione qui è che l´esperienza di Richard non fu affatto così eccezionale come la fa sembrare FAIF. Molti degli hacker più brillanti del mondo stavano arrivando, seguendo modalità individuali, allo stesso punto nodale. Il genio di Richard fu quello di aver esteriorizzato il proprio viaggio personale come progetto per un movimento, poi di averlo reso mitico e portato sulla strada – fornendomi un modello quando sentii necessario fare la stessa cosa dieci anni dopo. Ma avrebbe potuto trattarsi di qualsiasi altro tra noi. Avrebbe potuto essere Seth, Alan, Don, Oz, Mark o Karl, o chiunque tra la mezza di altri geniacci geek che incontravo nei convegni di fantascienza e i cui nomi mi sono passati di mente.
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Gli artefatti di RMS – GCC, Emacs, la GNU General Public License – hanno veramente cambiato il mondo. Il processo di sviluppo aperto, collaborativo che ha contribuito a creare sta trionfando. Il codice e la licenza da lui realizzati hanno raggiunto il successo; sono soltanto la sua retorica e il suo moralismo ad aver fallito. La tragedia è che lo stesso RMS assegna più valore al proprio moralismo che al proprio codice.
Se le cose stessero in modo diverso, se RMS fosse un po´ meno consumato dalle proprie grandi idee morali e un po´ più bravo a vendere, la cultura hacker non avrebbe caricato sul sottoscritto il lavoro di dire quel che lui non può dire. Avrei potuto essere un esponente a tempo pieno e stipendiato della sua crociata, piuttosto che ritrovarci rivali di malavoglia.
Spesso mi trovo a pensare che avrei preferito la prima soluzione. Forse allora la storia di RMS avrebbe avuto il risvolto felice, risolutore dello scenario proposto in FAIF. Ma non è così che è andata la storia. Credo invece che RMS non sarà mai soddisfatto delle vittorie che ottiene, anche qualora dovesse trasformare il mondo.