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Quanto sei disposto a pagare per vivere?

20 Marzo 2006

Quanto sei disposto a pagare per vivere?

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Secondo una società di ricerche biotecnologiche il costo di un farmaco salva-vita potrebbe dipendere dal valore che diamo a qualche mese di vita in più

Quando un’azienda deve determinare il prezzo di un prodotto, può fare un paio di considerazioni. Può decidere di trovarsi nel mercato del costo, in cui lo scenario è competitivo e i costi di produzione determinano il prezzo finale. Può invece considerare di trovarsi nel mercato del valore, se ha un prodotto più o meno unico e/o senza concorrenza e/o che offra performance straordinarie: in quel caso il prezzo è determinato dal valore percepito dal cliente e da quanto questo è disposto a pagare per avere il prodotto (e i costi di produzione hanno poco a vedere col prezzo). Questo approccio fa parte del modo di funzionare della nostra società dei consumi, e va benissimo quando ad esempio si tratta di prodotti di lusso, da collezionismo o di sfizio.

Quanto vale, una medicina?

Pur essendo di professione uno di quei cinici uomini di marketing, un recente articolo del New York Times mi ha fatto sobbalzare sulla sedia. Esiste un farmaco anticancro, chiamato Avastin, finora largamente usato (almeno negli Stati Uniti) per trattare tumori del colon. I ricercatori hanno però recentemente scoperto che lo stesso farmaco, impiegato a dosi più alte, potrebbe essere utile per trattare altre forme tumorali, come quelle del seno o dei polmoni.

Buona notizia. La cattiva notizia è che il farmaco è talmente costoso che un trattamento per queste nuove applicazioni, date le dosi più elevate, potrebbe costare anche 100.000 dollari all’anno. Un prezzo decisamente fuori portata per molte tasche e che molte assicurazioni private (negli Stati Uniti se non avete un’assicurazione medica privata non andate molto lontano) potrebbero rifiutarsi di pagare.

I medici si attendevano che la casa produttrice abbassasse il prezzo al grammo del prodotto, visto anche il fatto che produrne maggiori quantità in fabbrica non costerebbe poi molto di più (i costi da assorbire sono quelli iniziali di sviluppo e sperimentazione) e che esiste in quasi tutti i prodotti l’uso di introdurre una scala sconti legata alla quantità.

Secondo l’articolo del New York Times, la casa produttrice (Genetech, cui socio di maggioranza è Roche) ha invece mantenuto il prezzo attuale, basandosi non tanto sull’ammortamento dei costi di sviluppo del farmaco – senza dubbio astronomici e quindi lecitamente da recuperare – quanto sul valore del prodotto, o meglio sul valore della vita umana.

Grandi opportunità, scelte impegnative

L’Avastin è già oggi una macchina da soldi, con fatturati miliardari. Nel caso il farmaco venisse adottato anche per altre tipologie di tumori, il potenziale di redditività del farmaco esploderebbe. Il conto si fa in fretta: con un potenziale di mercato di mezzo milione di nuovi pazienti l’anno (scusate, clienti) solo negli Stati Uniti, e un prezzo di molte decine di migliaia di dollari l’anno procapite, il numero di zeri fa impressione (se non avete voglia di fare i conti, il New York Times stima un potenziale di 7 miliardi di dollari di fatturato per il 2009).

In realtà il conto è abbastanza teorico, in quanto molti di questi pazienti non si potrebbero mai permettere una spesa di questo genere, foss’anche per salvarsi la vita. Anzi per prolungare un po’ la propria esistenza, dato che viene riportato l’Avastin è in grado, più che di curare, di allungare di alcuni mesi la vita dei pazienti in fase terminale. Nonostante le rosee previsioni di fatturati in crescita (e quindi di probabili spazi economici per potersi permettere un taglio del prezzo), l´attesa riduzione non c´è stata e l´azienda ha assunto una posizione di difesa dei margini e dei fatturati.

Da un lato, se si abbassasse il prezzo al grammo, diminuirebbero i fatturati derivanti dalle applicazioni tradizionali in cui si usa meno sostanza. E questo, al management e agli azionisti, pare proprio essere una cattiva idea. E dall´altro, l´idea sembra essere che se si vogliono ottenere i benefici di un nuovo, potente farmaco… si metta mano al portafoglio, che ne vale la pena. Ribaltando così il problema sulle assicurazioni private (che potrebbero decidere di fare di tutto pur di non passare il farmaco agli assicurati oppure potrebbero ulteriormente aumentare i loro costi) o mollando la patata bollente alle già dissestate casse statali in quei paesi dove l´assistenza sanitaria è pubblica.

È inevitabile, a quanto pare, che margini di profitto e quotazioni azionarie non guardino in faccia nessuno, sano o malato, povero o ricco (per quanto, se uno è ricco, il problema venga meno). L´azienda fa i suoi interessi e si comporta come qualunque produttore sul mercato, dando per scontato che non tutti i potenziali consumatori interessati (fosse anche per necessità) possano accedere ai suoi prodotti. È pur vero che l´aziensa è intervenuta in alcuni casi con programmi di aiuto finanziario, ma sono solo una goccia nel mare.

Il rischio dell´effetto trascinamento

Ovvio, ogni azienda osserva ciò che fanno tutte le altre. E l´imitazione è la forma più sincera di adulazione, quindi i manager sono sempre pronti a copiare nella propria azienda quello che in altre ha avuto successo. Se dunque si consolidasse il principio che un farmaco costa per quello che vale, sulla percezione del beneficio (indipendentemente dalla percezione del nostro conto in banca), ci si potrebbe complicare non poco la vita.

Un domani alzandomi al mattino, dopo una cena un po’ eccessiva, dovrei decidere quanti soldi vale farmi passare il mal di testa. O, molto peggio, ci sarebbe chi dovrebbe domandarsi quanti soldi vale curare la bronchite del bambino o arginare il diabete della nonna.

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