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Occorre rimescolare strategie operative e business model

07 Aprile 2003

Occorre rimescolare strategie operative e business model

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Sun conferma pieno sostegno a Linux, mentre ci si chiede: quali distributori riusciranno a sopravvivere? E quanto durerà il momento d'oro di Linux?

Sun ribadisce il proprio impegno in ambito GNU/Linux, anche in replica ad una certa diffidenza diffusasi dopo il recente annuncio della rinuncia alla versione personalizzata del sistema, per avviare invece partnership con Red Hat ed altri maggiori distributori. La percezione secondo cui Sun Microsystems sia un “riluttante sostenitore” di Linux è del tutto errata. Almeno questo il succo di quanto dichiara Jack O’Brien, manager Sun per l’operatività Linux, nel corso di un’intervista appena pubblicata su Enterprise Linux. Dove si ribadisce tra l’altro che l’implementazione del sistema operativo open source per i server Intel x86 è parte integrale della “mix-and-match platform strategy” dell’azienda. Secondo il dirigente, Linux continuerà a crescere poichè i grandi dell’industria high-tech lo considerano una sorta di passo propedeutico all’acquisto di hardware Intel. Ulteriore motivo a sostegno del tempestivo ingresso di Sun nel settore specifico. Spiega O’Brien: “In ambito high-end, assistiamo al consolidamento di applicazioni per server a livello verticale, mentre al contempo parecchie aziende minori sono attirate dal rapporto prestazioni-prezzo dell’hardware x86 per l’impiego in ambienti orizzontali. Tali scenari economici sono l’ideale per il Solaris/x86 a 32-bit, e con l’aggiunta di Linux bene si adattano alla strategia dei prodotti Sun”. Il tutto tenendo a mente che nel complesso, se ne dichiara convinto O’Brien, l’imprenditoria sembra muoversi “da Windows verso Linux”.

Mentre Sun rimescola dunque le carte per il proprio business model, questo rimane pur sempre una sfida per gran parte delle aziende puramente devote al pinguino. Tra le quali una delle poche riuscite a imporlo è notoriamente Red Hat, i cui dirigenti si confermano fiduciosi nell’avere bilanci stabilmente in positivo, pur risultando per ora al limite delle perdite in rosso. Lo conferma il vicepresidente del marketing Mark de Visser: “Dalle indicazioni disponibili, abbiamo messo a punto un business model che funziona e che viene apprezzato dalle aziende.” Ciò è un segnale positivo, anche per sfatare una volta per tutte il mito (ancora vivo in parecchi ambiti) secondo cui per le strutture che operano nel mercato open source e software libero sarebbe impossibile guadagnarsi da vivere. “È positivo per l’intero movimento se le aziende operanti nel settore riescono a fare dei soldi, in modo che possano investirli e migliorarne il software.” Senza dimenticare che in tal modo società come Red Hat riescono a portare i rivenditori del settore enterprise nello spazio open source. “Consideriamo il lavoro necessario per aver portato a bordo Oracle e DB2, molte persone competenti sono pagate per fare tale lavoro.”

Quanto sopra ed altro nel tentativo di dare risposta, appunto, all’interrogativo tanto semplice quanto vitale: riesce a far soldi l’imprenditoria pura Linux? E se sì, quali le aziende in positivo? Difficile stabilirlo con precisione, sostiene un’interessante analisi curata da E-Commerce Times, poiché la maggior parte dei distributori non sono aziende pubbliche. Tra queste SuSE, numero due dietro Red Hat, che comunque appare in buona salute. Mentre l’ultimo bilancio trimestrale della stessa Red Hat, come accennato, è appena in rosso, pur a fronte di un aumento del 40 per cento delle entrate per l’anno fiscale 2003. Tra queste trovano sempre maggior spazio gli abbonamenti e i servizi aggiuntivi a pagamento, dall’assistenza tecnica agli upgrade automatici. Anzi secondo alcuni, proprio tali opzioni potrebbero rappresentare la prossima ondata vincente per i distributori GNU/Linux, non potendo contare esclusivamente sulla vendita di programmi e sistemi. Ne è convinto Nicholas Petreley, co-fondatore di LinuxWorld: “Non sono sicuro possa esistere un futuro vendendo soltanto pacchetti software.” Non a caso nell’ultimo trimestre Red Hat ha aggiunto 4.500 nuovi utenti al servizio Enterprise Linux per Advanced Server, portando il totale a 16.500 abbonati paganti.

S’impone insomma il rimescolamento continuo di strategie operative e business model. Ma pur riuscendoci, sarà comunque sufficiente a garantire l’ulteriore, forte penetrazione dell’open source? Nel senso che qualche esperto si dice sicuro di una certa saturazione del mercato. Il pinguino avrebbe cioè dato il massimo, più di così è impossibile attendersi. “Gli amanti di Linux sospettano di assistere all’apogeo del suo regno. È ora di assaporare l’aria fina e gustare il momento, perché non potrà durare.” Così scrive Vincent Ryan su osOpinion.com in un editoriale pragmatico ma non pessimista. Dove si spiega, ad esempio, che il riflusso non durerà all’infinito e quindi finirà il fascino di Linux in quanto sistema più economico da acquistare e far girare. Oppure che per compiere il prossimo, grande balzo in avanti il pinguino avrebbe bisogno di una “grande macchina per il marketing alle spalle: Linux non ce l’ha.” Il gran lavoro di IBM e HP non sembra sufficiente a garantire l’introduzione di applicazioni critiche nei nuovi sistemi operativi in ambiente enterprise. Per non parlare della qualità dell’assistenza tecnica necessaria alle grandi strutture operanti in tale ambiente, qualità che i vari distributori indipendenti appaiono lontani dal garantire, fatta eccezione per pochi nomi (IBM, Red Hat).
Un’analisi corretta ma forse fin troppo statica, visto il gran movimento tipicamente in atto nel mondo high-tech.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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