Che sia un segreto di Pulcinella lo sanno tutti. Noi blogger siamo un target. Nel senso che siamo un obiettivo strategico per le aziende che adottano un sistema evoluto di comunicazione, molto 2.0, molto consapevole e attento del ruolo degli influential. Come si può anche vedere da certi blog che riportano case history (ad esempio il caso italiano di Tipp-Ex), basta essere un blogger un po’ noto e con un minimo di seguito per essere in odore di “blogstaraggine”. Per essere annusato e valutato come sorgente di relazioni e di ridiffusioni, di contatti e di credibilità – che può essere applicata a una marca. Diventando una sorta di arma di seduzione di massa nel sofisticato mondo del social/internet/la qualunque-marketing. Ecco dunque che siamo oggetto di corteggiamenti e blandizie, la nostra casella di posta si popola di gentili messaggi che ci segnalano iniziative belle e interessanti di comunicazione innovativa (peccato che al 90% dei casi, si tratti di cose non interessanti, ricopiate da iniziative già fatte in altri paesi e spesso sbagliate come progetti di comunicazione).
La notizia e il gadget
Insomma, nel mondo della comunicazione si tende a pensare al blog marketing o nel senso di aprire un proprio blog aziendale, o di sfruttare, di portare dalla propria parte i blogger influenti (e ce ne sono alcuni di influentissimi, detto fra noi, potrei citare almeno un nome o due ad esempio nella moda) per trasformarli in endorser che si prestano gratuitamente o in cambio di qualche salatino a ritrasmettere il messaggio di marca. Senza considerare che, salatini e omaggini a parte (tipicamente una chiavetta USB o qualche gadgettino da pochi euro), se la notizia non c’è o se l’oggetto da comunicare non è interessante c’è poco interesse per il blogger serio a fare marchette e a veicolare news che buttano giù la qualità e la credibilità del blog (per quello che riguarda i circuiti di blog a pagamento, pay-per-post, quello è un altro discorso, per ora direi poco rilevante).
Ora, è vero che esiste in Italia una qualche decina di blogger influenti o molto influenti. È vero che questi hanno il loro seguito, qualche centinaio, qualche migliaio di follower. E se volete sapere chi sono basta chiedere in giro o, più praticamente, darsi una lettura alle classifiche che (nel bene e nel male, sullo specifico non mi esprimo) danno delle liste di personaggi e blog pesanti – come la classifica di Wikio o quella di Blogbabel. È vero pure che molti giornalisti usano i blogger come fonte di informazione e spunto per i propri articoli sui mass media. E che quindi, dal punto di vista comunicazione, appoggiarsi a questi influencer ha un suo senso e un suo ritorno.
Informazione diffusa
Ma è anche vero che in Italia di blog ce ne sarebbero 1,7 milioni. Prendendo i dati da questo post (un po’ datato) di Vincenzo Cosenza, c’è da fare qualche pensiero su che cosa vuol dire una tale potenza di fuoco comunicativa. Certo, molti di questi blog saranno stati abbandonati, a favore dei social network. Però a quelli che sostengono che i blog sono morti adesso che c’è Facebook rispondo che io credo che i blog che muoiono siano quelli che non avevano nulla da dire. quelli il cui contenuto («mi sono sbronzato», «ho visto un paio di scarpe carine») si trova più a suo agio su Facebook o Twitter. Credo che chi ha qualcosa da dire che non possa essere compresso in 5 righe possa continuare con il suo blog. Certo, molti di questi avranno uno o due lettori, la mamma e la fidanzata, dato che i lettori di blog in Italia erano stimati (stessa fonte) a 5,6 milioni. Ma è da evitare una media del mezzo pollo (ovvero che il blog medio italiano ha circa 3.2941 lettori).
Forse sottovalutiamo un po’ troppo, noi del marketing e della comunicazione, che non c’è solo il fenomeno verticale, dell’influencer che orienta le masse, rassicurante per le aziende perché mutua in fondo i modelli delle PR o delle media relation: al posto del giornalista mette il blogger famoso. Forse dobbiamo ricordarci che social significa sociale – ovvero socialità, ovvero gente che si parla. A gruppetti anche piccoli, ma dove ognuno si fa portatore di un messaggio e lo riporta in una sorta di staffetta al suo pubblico, ai suoi amici (o se preferite alla sua cerchia). E del resto si parla tanto di passaparola, di viralizzazione, di buzz. Va benissimo pensare a innescarlo sparando qualche cannonata da centinaia di lettori, ma c’è un mondo di piccoli blogger che in una relativa ombra macina contenuti e opinioni. Possiamo definirli le PMI dell’informazione? Si parla certo anche di citizen journalism, di informazione ultralocale. Ma si parla sopratutto di persone non famose che parlano di cose che sentono proprie. E che hanno un proprio seguito. Perché credibili e interessanti. Magari senza vivere nelle grandi metropoli.
Persone
Insomma persone normali, magari nemmeno tanto 2.0. Magari proprio delle “blogger di Voghera” (se non capite il riferimento, leggete qui). Persone che non raggiungiamo con campagne di email e attività di 121 marketing, anche solo perché ci sfuggono e non riusciamo a mettere in un database. Persone che possiamo solo coinvolgere, al buio, grazie alla forza e all’intelligenza di quello che abbiamo da dire. Perché buona parte dei blogger sono (sempre? spesso? periodicamente?) alla ricerca di cose interessanti da dire, da raccontare, da ridiffondere. Mettendoci del proprio. E se non fosse che lo spazio è tiranno ci sarebbe, e quanto, da parlare di come i blogger grassroot influenzano non solo sul fronte marketing, ma più in generale tutta la società connessa. Non sottovalutiamo il potere della blogger di Voghera, potremmo scoprire che quando sono le persone a parlarsi, succedono cose interessanti.
(Credits: almeno il 50% di responsabilità dello sviluppo del concetto della “blogger di Voghera” è da attribuirsi all’illustrissima Mafe de Baggis).