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Microsoft diventa open? Tutta una finta

07 Gennaio 2003

Microsoft diventa open? Tutta una finta

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Microsoft annuncia di abbracciare gli standard aperti con Office 11 e di fornire a richiesta il proprio codice sorgente. Il gigante diventa buono e accetta la filosofia del movimento open source? Non ci contate

La prossima versione di Microsoft Office, denominata temporaneamente Office 11, supporterà il formato XML in tutti i propri documenti. Detta così, sembra una notizia degna del più sonoro dei vostri sbadigli, ma resistete: per aiutarvi nell’impresa, vi preannuncio che questa storia include anche un faccia a faccia fra Bill Gates e un preservativo da due metri e quaranta.

Bene, ora che ho la vostra completa attenzione, vengo al dunque. Per gli addetti ai lavori, l’uso di XML da parte di Microsoft è una novità non indifferente: infatti, diversamente dai formati usati sinora da Office, XML è un formato aperto e non proprietario. In altre parole, le sue specifiche sono pubblicamente documentate e utilizzabili da chiunque senza restrizioni; quelle degli attuali formati Microsoft (il .DOC di Word, per esempio) no.

Questo, si ipotizza, dovrebbe consentire finalmente la realizzazione di applicazioni non-Microsoft che leggono e scrivono documenti Office in modo assolutamente identico alle applicazioni Microsoft, cosa finora praticamente impossibile. Certo, ci sono molte applicazioni concorrenti che si avvicinano a questo risultato, ma agli utenti l’approssimazione non basta: serve la compatibilità sicura e assoluta, visto che nella maggior parte dei casi devono condividere i propri documenti con clienti o colleghi che usano il prodotto Microsoft.

La mancanza di programmi alternativi realmente compatibili con i formati Office è la chiave del successo di Microsoft. Immaginate, per esempio, di poter scrivere documenti Word perfetti usando un programma diverso da Word che costi meno di Word o sia addirittura gratuito come OpenOffice.org (che già supporta XML da tempo). Verrebbe ovviamente a mancare la ragione principale per cui si compra Word, ossia scambiare documenti trasparentemente con l’universo degli utenti del prodotto Microsoft.

Inoltre, se diventa possibile creare un programma perfettamente alternativo a Microsoft Office, lo si può creare anche in versioni per sistemi operativi diversi da Windows: per esempio per Linux, che è gratuito. Viene quindi a mancare anche la ragione principale per cui si compra Windows, ossia la necessità di usare Microsoft Office, attualmente disponibile appunto soltanto per Windows e per i sistemi operativi Mac, che sono tutt’altro che gratuiti.

Quindi, ragionano in molti, l’avvento dell’XML in Microsoft Office consentirebbe di fare a meno sia di Office, sia di Windows: una buona notizia per i bilanci aziendali, già scottati dai recenti rincari delle licenze Microsoft. La società di Redmond adotterebbe un formato che non ci obbliga a usare i suoi prodotti. Ecco perché la scelta di Microsoft di adottare XML ha destato così tanto interesse.

Dunque Microsoft ha abbastanza fiducia nella qualità dei propri prodotti e nella propria potenza commerciale da rinunciare ai meccanismi che incatenano gli utenti al suo software? Se la cosa vi sembra troppo bella per essere vera, c’è un’ottima ragione: non è vera.

Il burro spagnolo

L’XML, infatti, è un formato un po’ particolare. A differenza dell’HTML, in cui i nomi e le funzioni degli attributi o tag sono rigidamente predefiniti (la coppia di tag e significa che il testo compreso fra i due tag deve essere in grassetto, per esempio), l’XML consente la definizione personalizzata di questi attributi.

Semplificando al massimo, chiunque si può svegliare una mattina e definire per ipotesi una coppia di attributi e </firma del pennivendolo> per indicare che il testo racchiuso fra questi due tag indica il nome dell’autore di un articolo. L’XML, avrete notato, è orientato più alla gestione del significato di un testo che alla sua formattazione, anche se è utilizzabile per entrambe le funzioni.

Queste definizioni personalizzate sono raccolte in un cosiddetto schema, che è una sorta di chiave di interpretazione dei vari attributi. Lo stesso attributo può avere significati completamente diversi in due schemi differenti, un po’ come burro si scrive allo stesso modo in spagnolo e in italiano ma ha due significati radicalmente distinti (in spagnolo significa “asino”).

Pertanto, se lo schema di un file in formato XML non è documentato, gli attributi non sono decifrabili, anche se il file è a tutti gli effetti scritto in un formato aperto, così come se incontriamo la parola burro senza che sia accompagnata da un contesto che chiarisca se è italiano o spagnolo, possiamo leggerla ma non interpretarla.

Soltanto chi conosce lo schema di un file XML è in grado di visualizzarlo ed editarlo correttamente. E stando a Cnet, Microsoft non ha ancora chiarito se intende divulgare i propri schemi e consentirne il libero riutilizzo. Traduzione: il nuovo Microsoft Office può benissimo usare un formato aperto, eppure scrivere file compatibili soltanto con se stesso.

La scelta dell’XML è doppiamente astuta: prima di tutto perché ora Microsoft può dire farsi bella dicendo che Office usa un formato aperto e non più proprietario (cosa almeno formalmente vera), zittendo così chi si è reso conto della trappola costituita dai formati proprietari; in secondo luogo, perché XML è la parola più trendy dell’informatica odierna per delle ottime ragioni. Come accennato, infatti, consente di assegnare un significato alle parti di un documento, e questo è un potere inestimabile nel cosiddetto data mining (l’estrazione di dati dagli archivi dei documenti elettronici).

Per esempio, se l’archivio delle fatture è costituito da file Word e volete estrarne i totali per generare un riepilogo, attualmente dovete procedere a mano aprendo ciascun file e trascrivendone il totale, mentre con XML ogni totale è già contrassegnato automaticamente da un attributo che lo identifica, ovunque si trovi nel documento Word, e quindi è banale creare uno script che lo estragga e ne tragga un riepilogo.

Conosco persone che venderebbero un rene pur di poter fare cose di questo genere (preferibilmente il rene di un collega, ma non sottilizziamo). Office promette di consentirle, ed è quindi altamente desiderabile. Ma in quanto a rendere interoperabili i propri documenti con altre suite per ufficio, per ora è solo una pia illusione.

Alla sorgente del codice

Parlando di pie illusioni, Bill Gates è stato recentemente in India a donare cento milioni di dollari a favore della lotta all’AIDS e nel contempo dedicarne ben quattrocento ad investimenti e “doni” alle scuole indiane tesi a promuovere l’educazione all’uso del software. Lascio a voi intuire di quale software si tratti.

La visita è capitata, sicuramente per una fortuita coincidenza, poco dopo l’ annuncio da parte del governo indiano di un’iniziativa per adottare Linux come piattaforma preferenziale per ovvi motivi di costo, particolarmente sentiti in un paese economicamente povero ma informaticamente ricco di programmatori di primissima categoria.

Di conseguenza non sono mancate le malelingue che hanno ritenuto un gesto di cattivo gusto spendere contro Linux quattro volte la cifra dedicata all’AIDS, e durante la tappa a Hyderabad per visitare un nuovo centro di sviluppo software Microsoft, Bill Gates si è trovato, come dire, “hatù per tu” con un immenso preservativo su precise istruzioni del ministro locale.

Sempre per un’altra di quelle meravigliose coincidenze che adornano la vita dei ricchi e dei potenti, poco dopo la visita di Gates, Microsoft ha proposto al governo indiano di “condividere” il codice sorgente di Windows, come ha già fatto con Giappone, Svizzera e USA. Ancora una volta, una mossa apparentemente rivoluzionaria, vista la proverbiale riluttanza di Microsoft a far conoscere il contenuto di Windows a chicchessia.

Come per il caso dell’XML, si è subito levato il coro degli entusiasti che hanno visto questa mossa come una capitolazione del colosso di Redmond nella direzione della filosofia dell’open source. Alcuni governi stanno diventando più cauti nella gestione della propria riservatezza e autonomia, e cominciano a dare segni di inquietudine all’idea di far dipendere la propria amministrazione (quindi, in un certo senso, la propria esistenza) da un prodotto il cui contenuto è segreto e appartiene oltretutto a una società straniera che, da buona capitalista, non regala certo il proprio software. Ed è obiettivamente difficile per Microsoft ribattere elegantemente alla domanda “il codice di Linux è pubblico, come mai non ci fate vedere il vostro?”. Per quanto sia sacrosanto diritto di Microsoft custodire i propri segreti commerciali, è difficile per l’acquirente non trarne l’impressione che ci sia qualcosa di brutto da nascondere.

In realtà, analizzando i fatti senza facili entusiasmi, salta fuori che “condividere” ha un significato inconsueto in casa Microsoft. Se due persone condividono il pane, significa che ne mangiano e ne beneficiano entrambe. Per Microsoft, invece, “condividere” significa “io mangio il pane, tu lo guardi e non lo tocchi”.

Gli accordi Microsoft prevedono infatti che il suo codice sorgente sia sì ispezionabile, ma soltanto in parte, e soltanto da parte di alcuni individui accuratamente selezionati che avranno l’obbligo di segretezza su ciò che hanno visto. Il codice, inoltre rimane nella maniera più assoluta di proprietà Microsoft e non è modificabile. Tutt’altro che open source, dunque.

Fa niente, si è obiettato; una parziale trasparenza è meglio di niente. I governi e le aziende che temono che il software Microsoft possa contenere vulnerabilità (hai visto mai?) o peggio ancora “passaggi segreti” (backdoor) che permetterebbero a Microsoft o a governi amici di Microsoft di spiarli, possono comunque ispezionare il codice e saperlo una volta per tutte.

Beata ingenuità: a parte il fatto che non tutto il codice viene reso accessibile agli eletti e quindi la parte segreta può comunque contenere qualsiasi cosa, c’è il piccolissimo problema che la “condivisione” proposta da Microsoft non garantisce in alcun modo che il codice esaminato sia quello effettivamente presente in Windows.

Sotto Linux, si può scaricare il codice sorgente e compilarselo personalmente: pertanto si sa che ciò che si esegue (la versione compilata) è davvero il codice che si è scaricato ed esaminato. Con la soluzione Microsoft, da una parte c’è un codice sorgente visibile solo in parte, dall’altra c’è un CD di installazione contenente Windows compilato, e in mezzo, a garantire che il compilato sia davvero tratto dal sorgente che ho esaminato, c’è sempre e solo Microsoft.

Dubito seriamente che Microsoft si abbassi a barare in questo modo, ma se un governo è scettico nei confronti dell’azienda di Bill Gates, non ha senso chiedergli di fidarsene in questo modo. Questa è chiaramente una soluzione che non risolve nulla e anzi ricorda spiacevolmente i metodi di certi venditori ambulanti che prima mostrano l’oggetto autentico e poi rifilano una scatola sigillata che contiene invece una telecamera di legno.

Insomma, lasciamo da parte le manovre d’immagine di Microsoft e guardiamo alla sostanza: Microsoft produce software per fare soldi (e in questo non c’è niente di male), e una posizione di monopolio permette maggiori guadagni, per cui non farà mai nulla, almeno consapevolmente, che possa intaccarla. I suoi discorsi di apertura sono palle di Natale: belle fuori, ma vuote dentro. E ora che è passato il Natale, è ora di mettere da parte gli addobbi e concentrarci di nuovo sulla realtà quotidiana.

questo articolo e’ stato modificato rispetto alla sua versione originale per correggere un errore tecnico

L'autore

  • Paolo Attivissimo
    Paolo Attivissimo (non è uno pseudonimo) è nato nel 1963 a York, Inghilterra. Ha vissuto a lungo in Italia e ora oscilla per lavoro fra Italia, Lussemburgo e Inghilterra. E' autore di numerosi bestseller Apogeo e editor del sito www.attivissimo.net.

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