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Le metriche della vanità

03 Aprile 2024

Le metriche della vanità

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Vedere crescere la fan base secondo metriche di fatto fini a sé stesse può compiacere il capo, ma non fa per forza bene a un prodotto o a un marchio.

Ci sono anche le metriche gloriose

La promessa mai del tutto mantenuta su cui si poggiava la superiorità del digitale rispetto all’analogico era la possibilità di misurare ogni tipo di azione di comunicazione e di marketing fosse fatta su Internet. Per capirci: non posso sapere per certo quante persone vedono un manifesto 6 metri per 3 affisso in circonvallazione, ma posso sapere quante persone hanno visto e cliccato su un banner pubblicato su un sito.

Questo equivoco, di cui tutti siamo stati al contempo vittime e carnefici, ha provocato una serie di fraintendimenti che solo in piccolissima parte, negli anni, sono rientrati.

Per poter misurare qualcosa è da sempre necessario avere un metro. Si dice avere un metro di giudizio inteso non tanto come una lunghezza di giudizio, quanto un’unità di misura. Quando si parla di metriche nelle attività di comunicazione e di marketing in Rete, si parla di una serie di indicatori che servono appunto a misurare la performance di quell’azione.

Per esempio, i visitatori di un sito Web sono una metrica. All’aumentare dei visitatori di un sito, si presume ci sia stato un aumento di interesse rispetto al sito stesso. Il numero di persone che ha messo mi piace a una pagina Facebook (prima si chiamavano Fan, ingrandendo l’equivoco) sono una metrica, perché serve a misurare – in teoria – la performance della mia presenza sul social in questione.

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Il discorso potrebbe prendere varie strade fino ad arrivare ad aspetti molto tecnici, qui vorrei limitarmi a palesare una serie di paradossi che ritengo fondamentali, per capire come in tutti questi anni l’ossessione per la misurazione ci ha talvolta offuscato la visuale e fatto perdere di vista alcuni valori da tenere in considerazione quando si svolgono determinate attività in Rete. Il pensiero che cerco di portare avanti non è ignorare i sistemi (seppure instabili) di misurazione delle attività di comunicazione (soprattutto nel digitale), ma di dare loro un giusto peso, di riuscire a equilibrare sempre i numeri e i dati con il parere e l’esperienza umana. Capita che alcune cose debbano essere fatte a prescindere dal riscontro e parallelamente che alcune attività che ritenevamo interessanti debbano essere abbandonate, per via delle indicazioni avute dalle misurazioni.

Le metriche della vanità (che non lo erano)

Il termine è importato direttamente dell’inglese-americano vanity metrics. Per metriche della vanità si intendono tutte quelle metriche che ci permettono di scondinzolare con la coda da pavone ben aperta e farci belli allo specchio, rivolgendo la proverbiale domanda su chi fosse il più qualcosa del reame. La metrica vanitosa per eccellenza è il like sul post o sulla pagina.

Per anni e anni ogni richiesta iniziale da parte di un imprenditore o di un marketing manager era far crescere la fan base, cioè accrescere il numero di persone che avevano deciso di seguire la pagina in questione. Il motivo era semplice: avere più follower equivaleva ad avere la coda di pavone più grande. Avere – per esempio – 1.000 follower (quando hai da poco aperto l’account) o 10.000 col passare del tempo equivaleva, erroneamente, a rafforzare la reputazione del brand, del ristorante, del negozio X o Y. Come se quella quantità certificasse qualcosa. Se questo microragionamento ha avuto agli inizi dell’era social un certo microfondamento, è già dopo qualche anno che tale strategia ha perso definitivamente efficacia.

All’inizio del 2015 scrissi un articolo sul mio blog che – non chiedetemi perché – continua ancora a generare visite. Il titolo recita così: Perché non devi mai invitare i tuoi amici a mettere mi piace sulla tua pagina. L’articolo faceva riferimento a una delle pratiche che l’allora piattaforma di Facebook permetteva per far crescere la pagina rapidamente: l’invito alla lista dei propri amici dall’amministratore di turno (in seguito è stato possibile farlo da chiunque). In quegli anni non era raro ricevere un invito a mettere il like alla pagina Facebook da un lungimirante meccanico di Perugia, quando tu in realtà vivevi a Catania, per il solo fatto di avere un amico social media manager in quella città. Al di là del fastidio in sé, che per alcuni fastidio non era, l’azione era controproducente per il semplice fatto che, all’aumentare dei follower, in realtà diminuiva la portata organica dei post e sempre più vi era la necessità di sponsorizzare i contenuti. Avendo quindi più follower non realmente interessati si spendevano soldi inutilmente.

Tutto questo rapportato ai giorni nostri non cambia molto: il follow alla pagina è una metrica che continua ad alimentare esclusivamente la nostra vanità, dove per nostra intendo quella di chi gestisce queste attività e di chi ne è proprietario. Perfino la stessa piattaforma Meta ha depotenziato lo strumento per promuovere la pagina Facebook al fine di ottenere like e ha nascosto, nel proprio design, il numero di persone che seguono la pagina. Metrica che invece su Instagram rimane saldamente in vista (chissà per quanto ancora).

Le metriche definite vanitose sono messe a paragone con altre metriche che io chiamo gloriose, ma che in gergo vengono definite actionable metrics, cioè metriche che attivano un’azione o meglio una conversione. Quindi se il like è una metrica vanitosa, il costo per acquisizione cliente è una metrica gloriosa, perché mi dà un’indicazione concreta rispetto a quanto devo spendere in media per avere un cliente che mi genererà un profitto X. Se il numero di iscritti alla tua newsletter è una metrica vanitosa, la percentuale di clic che la tua newsletter riceve è una metrica actionable, perché mi indica percentualmente quanti cliccano, dimostrando un interesse rispetto a quanto scrivo.

Fin qui tutto secondo norma, ma la realtà però non è mai così semplice e diretta, e ciò che negli anni era una certezza quasi assodata, nel tempo è diventata una mezza verità e le metriche della vanità hanno avuto una loro piccola rivincita a seconda del tipo di attività che si vuole portare avanti e del modo in cui queste metriche vengono costruite e alimentate. Non fermarsi al dato assodato e cercare di ribaltare il tavolo è l’unico modo per poter provare ad avere un vantaggio strategico, perché anche la popolarità può aiutare, se ben usata, ad alimentare il prestigio.

Continuerò con l’esempio dei like alla pagina Facebook o Instagram, ma il ragionamento vale anche per altre metriche che vengono definite vanitose.

Grazie alla possibilità di sponsorizzare contenuti alla propria fan base, quindi a un gruppo di persone ben definito, avere una pagina seguita da un numero X di persone interessate può essere un obiettivo interessante da raggiungere. Il punto, però, è come lo raggiungo. Perché se ho una pagina di un’attività di Roma e ho popolato quella pagina comprando 5.000 follower in India, è evidente che la metrica follower continui a essere vanitosa.

Se invece quella pagina è cresciuta nel tempo, in maniera organica, sponsorizzata ma mirata, selezionando un target d’interesse preciso, allora avere una audience a cui poter far vedere un messaggio preciso, sponsorizzandolo e quindi investendo del denaro, ha senso. Ancora, stesso discorso con le interazioni: la piattaforma Meta permette di creare una audience verso chi interagisce col tuo contenuto attraverso commenti, clic e altro. Se ho creato contenuti molto distanti dal mio ambito, che hanno potuto generare interazioni non pertinenti, io avrò alimentato solo delle metriche vanitose, potrò bearmi di quanti like riceve la mia foto, ma di quei like che me ne faccio?

Se invece ho fatto in modo di avere delle interazioni pertinenti, ritroverò quella audience più interessata al mio messaggio. Ultimo esempio: le visite a un sito con e-commerce sono considerate metriche vanitose rispetto al tempo trascorso su una pagina e di norma questo è corretto. Ma se le visite al sito sono mirate a una promozione e da quella visita riesco a creare una audience in cui poter far remarketing, quella metrica diventa actionable. Le metriche vanitose che non lo erano sono quelle metriche quantitative che, a seconda di come sono generate e di come vengono usate, possono tornarci utili, possono cioè essere sfruttate per i nostri obiettivi di comunicazione e soprattutto di marketing. Se nella tua visione delle cose avevi diviso le metriche in buone e cattive, in actionable e vanitose, è forse arrivato il momento di farti qualche domanda.

L’interazione è sopravvalutata

Nel tempo ho riflettuto varie volte su cosa voglia dire interazione in Rete, rispetto a un post sui social e in generale a un contenuto su un sito, un banner, una newsletter. L’interazione è sempre stata la metrica principe per valutare quanto efficace sia stato quel determinato oggetto, presumendo, anche a ragione, che senza interazione non ci sia valore. Questo è uno di quegli equivoci relativi alle misurazioni in Rete. L’interazione oggi è assolutamente sopravvalutata, ma, attenzione, non è da ignorare. È un paradosso che provo a spiegare. Col passare del tempo, come persone che frequentano la Rete, siamo diventati più pigri. Questa considerazione nasce dall’osservazione parziale del mio stare in Rete e delle persone che frequento, dai dati riscontrati dalle presenze che gestisco e dal confronto con tanti colleghi nel tempo. Non sono dati scientifici, certo, e quindi il mio invito è riflettere sul modo in cui ognuno di noi sta in Rete.

Ti capita mai di non interagire con contenuti che catturano la tua attenzione? Di vedere – per esempio – un video fino alla fine e di non esprimere nessuna azione, né un like, né un commento? O ancora, quante volte ti capita di inoltrare un video su Instagram a un amico senza lasciare una traccia visibile, cioè un like, un commento, un salvataggio? Metti like a tutte le foto che ti piacciono su Instagram?

Allora l’interazione è sopravvaluta se pensiamo di misurarla così come l’abbiamo misurata fino a ora, ovvero solo in termini di like, commenti e condivisioni, tutte azioni misurabili che, cambiando campo di analisi e studio, sono il modo con cui le piattaforme ci inducono a essere più produttivi, perché più produciamo più possiamo essere gratificati. Senza entrare quindi nello specifico, ma rimanendo nel nostro campo di azione, interazione oggi vuol dire anche vedere un video per intero e questo è un dato da osservare e misurare, per esempio. Mentre in superficie le piattaforme ci dicono quante persone hanno visto per 3 secondi un video, noi dobbiamo scavare per capire quanti hanno visto almeno il 90%.

Per misurare in maniera approfondita l’interazione su un contenuto, dobbiamo considerare una serie di metriche che non siano solo metriche visibili. Fatto questo, continuando nel paradosso dell’interazione sopravvalutata, dobbiamo accettare l’idea che oggi i nostri contenuti vengono visti allo stesso modo con cui vediamo i cartelloni 6 metri per 3 in tangenziale, con la stessa attenzione e con la stessa voglia di fermarci e chiamare il numero telefonico riportato sul manifesto. Non sempre ci fanno compiere un’azione, ma spesso catturano la nostra attenzione.

È merito mio, tuo, nostro

Nel chiudere l’argomento della misurazione delle attività che portiamo avanti, voglio soffermarmi su quanto siano fallaci i sistemi che utilizziamo per misurare, soprattutto quando sono cross platform, cioè quando due piattaforme concorrenti dovrebbero dialogare tra loro.

Chiunque abbia messo mani sugli analytics delle proprietà gestite sui social si è reso conto che basta confrontare un file CSV di dati scaricati dal gestionale di una piattaforma con gli stessi dati, ma forniti nel pannello, in maniera quindi più semplice e leggibile, per accorgersi di evidenti discrepanze, a volte più leggere e a volte profonde. Sto parlando di dati forniti dalla stessa piattaforma, su un identico punto e che quindi dovrebbero combaciare, in teoria.

La situazione peggiora quando, come dicevo prima, le piattaforme si incrociano: non troveremo mai corrispondenza tra i numeri di clic ricevuti da un ads e le relative visite al sito, soprattutto se le ads arrivano da una piattaforma concorrente. Così come non risultano mai – o quasi – le vendite che realmente avvengono in un e-commerce e il corrispettivo che viene fornito nel pannello del sistema più diffuso di misurazione presente nella quasi totalità dei siti Internet su scala mondiale. Voglio dirlo chiaramente: non sei solo in questa valle di lacrime, parlane con più colleghi possibile, vedrai che troverai gli stessi riscontri che ho trovato io negli anni e che continuo a trovare ogni qual volta mi confronto con chi ha le mani in pasta in situazioni molto più grandi o molto più piccole di quelle che ho io.

La medaglia d’oro va di diritto al problema dell’attribuzione delle vendite (o di qualunque altra conversione che decidiamo di valutare come tale), cioè al riconoscere la paternità del merito di quella conversione a una determinata ads o link organico.

Le piattaforme si contendono il merito e le stringenti norme sulla privacy che sempre più prendono piede, anche giustamente in alcuni casi, hanno ridotto la possibilità di comprendere da dove è partita la scintilla. C’è una corsa a prendersi il merito, quando il merito è sempre del lavoro di squadra.

Dire qualcosa non vuol dire avere qualcosa da dire, di Rocco Rossitto

Un libro dedicato a chi vuole occuparsi di comunicazione consapevole del fatto che l’unica risposta sempre buona è “dipende”: da cosa vuoi essere, prima di tutto, e da cosa conta davvero per te.

Bisogna anche qui riuscire a mediare e prendere con le pinze ciò che le piattaforme da un lato vogliono darci come verità. Dall’altro, ignorare alcuni segnali che ci vengono forniti per basarci esclusivamente su scelte non validate da dati aumenta la possibilità di errore.

Personalmente utilizzo gli analytics sui social, sui siti, sugli strumenti di email marketing come macro indicatori di tendenza. Li utilizzo per guardare la big picture e non come lente al microscopio. I motivi sono tanti e vanno ben oltre quelli elencati qui. Alcuni sono tecnici (differenza di strumenti server o extra server, per esempio), ma a prescindere dal perché, strategicamente ritengo che alla misurazione fornita dalle piattaforme sia necessario dotarsi di sistemi di misurazione semplificata e tangibile, che tendano sempre più a considerare come unico il comparto di attività portato in essere, senza pretendere di sapere nel dettaglio se quel determinato post ha generato X vendite, per capirci.

Personalmente faccio un grande lavoro di educazione in tal senso, dove è possibile farlo: non prendendomi meriti quando sarebbe facile farlo, non accettando di prendermi colpe quando all’ennesimo cambio di algoritmo (semplifico) non si riesce ad avere un riscontro di dati.

Se la promessa iniziale delle attività di comunicazione e marketing sul Web era la superiorità fornita dai dati, con la fallacità dei modelli di attribuzione passati e presenti il futuro sarà ancora più incerto, se decidiamo di prendere le nostre decisioni solo ed esclusivamente dai riscontri che otteniamo dalle piattaforme.

Accettarlo una volta per tutte ci permetterà di gestire processi d’acquisto che non sono definibili dentro modelli precisi, perché sono processi che non possono essere standardizzabili, perché sono altamente casuali, perché ibridano digitale e fisico e mescolano piattaforme diverse e device diversi. Una complessità che viviamo tutti i giorni nel nostro quotidiano, ma che tendiamo a dimenticare quando vestiamo i panni di consulenti, di marketing manager, di formatori e di imprenditori, quando pretendiamo di conoscere ciò che non possiamo conoscere. Quando cediamo alla retorica del data-driven come oracolo da interrogare, come oracolo da ascoltare in maniera dogmatica.

Questo articolo richiama contenuti da Dire qualcosa non vuol dire avere qualcosa da dire.

Immagine di apertura originale di Jaime Lopes su Unsplash.

L'autore

  • Rocco Rossitto
    Rocco Rossitto, al lavoro di advisor e consulente di comunicazione freelance, affianca interventi in convegni di settore, in corsi di formazione, in master universitari. Insegna Storia e Teoria dei Nuovi Media presso Abadir, Accademia di Design e Comunicazione Visiva a Catania. Dal 2014 cura "Una cosa al giorno", una longeva newsletter per persone curiose; nel 2023 ha pubblicato Perdersi in Rete.

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