Una questione di tortore e lantane
“Qualche scaltro giardiniere, deciso ad accrescere ancora la bellezza delle Hawaii, vi introdusse una pianta chiamata lantana camara che nel suo ambiente originario, il Messico, non aveva mai provocato fastidi ad alcuno. Frattanto anche qualcun altro aveva migliorato le attrattive del luogo importando dalla Cina delle tortore che, a differenza degli uccelli indigeni, si mostrarono ghiottissime di bacche di lantana.
Gli effetti combinati del vigore vegetativo della pianta e dello spargimento dei semi a opera delle tortore provocarono la smisurata proliferazione della lantana che divenne una calamità per le zone tenute a pascolo. Furono pure introdotti degli storni indiani, e anch’essi si cibarono di bacche di lantana. Dopo qualche anno gli uccelli di entrambe le specie erano aumentati enormemente. Ma la storia ha anche un altro risvolto. In precedenza le praterie e le giovani piantagioni di canna da zucchero erano state devastate da numerosissime schiere di larve di falena, ma gli storni se ne cibarono e riuscirono in larga misura a tenerle in scacco per cui le devastazioni divennero meno gravi.
All’incirca in quel periodo furono introdotti certi insetti per cercare di frenare la diffusione della lantana e molti di essi (in particolare una specie di mosca agromyzidae) distrussero effettivamente un’enorme quantità di semi tanto che la lantana cominciò a diminuire. Il risultato fu che presero a diminuire anche gli storni, al punto di far riesplodere il flagello delle larve. Si vide poi che alla lantana eliminata in molte località si erano sostituiti altri arbusti introdotti, alcuni dei quali assai più difficili da estirpare della lantana originaria”. (Charles Elton citato da G. Hardin, Stalking the wilde taboo, P. 169)
La situazione di difficili equilibri dei sistemi provocati da un cambiamento non previsto, come l’introduzione di una pianta messicana alle Hawaii, assomiglia a quanto si trovano ad affrontare gli specialisti che, a suon di migliaia di miliardi, stanno combattendo il male oscuro della nostra civiltà neo-tecnologica noto come Y2K bug. Chi ricorda gli esordi dell’AIDS saprà come certi mali non appartenenti alla tradizione patologica e all’esperienza della quotidianità possano essere sottovalutati o incompresi, per poi rivelarsi nel loro sepolcrale splendore solo quando il loro impatto si è diffuso, come semi di lantana, in tutto il sistema.
Prima di quel momento l’AIDS era la malattia degli omosessuali latino-americani, così come l’Y2K bug è oggi visto come la malattia dei computer delle aziende o delle banche: la stupida e costosa questione di come ri-ficcare in tutte le cifre dell’anno i primi due numeri, già soppressi per una praticità tutta tecnica, in quanto accademici, bizantini, classico-umanistici e in definitiva brutti e inutili (in rapporto alla durata della vita umana), come mettere i nomi dei giorni o dei mesi, invece di poche comode cifre. Noi animali umani siamo fatti così, lo diceva già Vico, capiamo le cose solo in misura delle nostre dimensioni e dei nostri sensi, mentre ci diamo da fare per sostituirci a Dio nel creare regole e costanti di dimensioni eterne ed universali. Pensiamo e viviamo in prima persona, ma diffondiamo “sapere” alla terza, come se descrivendo il mondo dalla prospettiva limitata dei nostri sensi potessimo parlare in nome della verità.
Effetti a catena non-specialistici
Così accade che futurologi ed informatici si affannino a smentirsi a vicenda sulle vere dimensioni che l’impatto del baco dell’anno 2000 avrà sulla nostra società. Gli uni a farsi belli nel descrivere con esattezza sconcertante quanto di catastrofico avverrà nelle nostre case; gli altri a minimizzare il problema riportandolo a dei banali effetti tecnici risolvibilissimi mentre accusano di impreparazione chi discute sulla cosa. C’è addirittura chi, facendo le prove sul PC di casa, dimostra che il problema non esiste.
Non torneremo sulla questione ormai strasentita. Ci limiteremo a ricordare che questa minaccia fu segnalata poco dopo la fine della seconda guerra mondiale da un’esperta militare che inventò il concetto di bug (l’incubo-riscatto dell’insetto, così presente nell’iconografia cinematografica e letteraria di questi ultimi anni). L’idea è la stessa che dette origine alle disavventure descritte nel film Brazil, dove una brava famiglia venne rovinata da un apparato burocratico-tecnologico orwelliano a causa di una mosca che, malamente uccisa in un ufficio automatizzato, determinò un errore di imputazione e gli effetti a catena che ne conseguirono.
Non intendiamo dire chi ha ragione o chi ha torto, perché è certo vero che si tratta solo di un problema delle dimensioni di una mosca, ma è altrettanto vero che le sue conseguenze imprevedibili contemplano reazioni a catena difficilmente collegabili alla mosca. I limiti del pensiero tecnocratico emergono proprio in queste circostanze. Non si fanno che censimenti su chi ha preso i provvedimenti e chi no, come se la banca che ha intrapreso provvedimenti dovesse considerarsi tranquilla e l’altra no. Il problema è che viviamo in un mondo interconnesso e nessun problema può dirsi definitivamente superato fino a che non sappiamo che ogni elemento della catena è stabile e sicuro.
Ma questo, lo sappiamo bene, è impossibile. È impossibile innanzitutto perché i paesi emergenti (per non parlare di quelli sommersi) su cui si basa un’ampia percentuale della produzione occidentale, per mantenere i prezzi bassi devono ridurre gli investimenti, soprattutto in quei comparti dispendiosi come i servizi informatici. Cina, blocco sovietico, Estremo Oriente, per non parlare di Brasile e Africa non hanno una vera cultura informatica ed usano software il più delle volte trafugato e desueto. Non possono certo spendere le centinaia di miliardi investiti da una media multinazionale per far fronte al bug.
Eppure una disfunzione dei loro automatismi può essere sufficiente per mettere in seria crisi interi impianti industriali. Sappiamo dei recenti drammatici effetti che la crisi dei mercati asiatici, o della finanza brasiliana hanno comportato per l’economia occidentale. Se solo una percentuale rilevante di queste minacce si verificasse, gli effetti sulle più attrezzate organizzazioni occidentali sarebbero superiori a quelli che avrebbero potuto verificarsi se non avessero provveduto a casa loro. Continuando la nostra iperbole sui rischi ecosistemici possibili di natura non-tecnologica, possiamo ricordare gli effetti da panico. Se si diffondesse la voce che il Y2K bug è effettivamente minaccioso per l’economia, si assisterebbe ad un ritiro degli investimenti in borsa ed una conversione dei risparmi in beni più stabili a dispetto del disastro economico che si originerebbe.
Un altro rischio sottostimato è dato da quanti potrebbero avere interesse a speculare sul fenomeno e magari anche a favorirlo. Le mafie di tutto il mondo, lobbies comprese, ad esempio, potrebbero essersi preparate per speculare pesantemente sul bug, senza che nessuno di noi possa avere la più pallida idea di quanto si va tramando.
Ci sono poi i temi catastrofici definitivi, come quello dell’escalation militare provocata da un difetto nella programmazione degli armamenti, proprio nei paesi che meno possono investire nell’adeguamento. La letteratura in materia è già vasta da tempo, per non parlare dei black-out, i disastri anagrafici o informativi che sono divenuti luoghi comuni della discussione.
Mettiamoci in ferie!
Non ci interessa insomma conoscere la questione tecnica di quello che sta diventando il più grande beffardo paradosso della nostra presunta civiltà.
La prospettiva tecnica va ridimensionata in questo fine secolo pazzo ed egoista, per tornare a rivalutare quella filosofica, ultimamente relegata nelle sempre meno frequentate università per futuri disoccupati. Nessuna soluzione tecnica potrà permetterci di superare eventuali effetti devastanti del bug, solo un ritorno al buon senso può essere determinante. Potrà rendersi necessario che il mondo sappia tenere i nervi ben saldi all’alba del nuovo millennio, in modo da sapere discernere fra l’informazione e la verità e fra queste due e il comportamento saggio.
La beffa di fine secolo lascia emergere una delle abitudini perverse a cui la società dei media e dell’informazione ci ha passivamente abituati: l’informazione, giusta o sbagliata che sia, determina i comportamenti in maniera sempre più veloce ed acritica. Sempre più di rado si sospende il giudizio, si minimizza sull’importanza dei fenomeni di grido, si prendono le distanza dai comportamenti di massa. La conoscenza, la cultura e la saggezza sono diventati nel migliore dei casi dei sottoprodotti demagogici, residui sepolti dalla rivoluzione mediatica.
E se il sistema migliore per vincere la mosca del duemila fosse quello di staccare la corrente in tutto il mondo quando si spengono le luci delle case per dar fuoco ai petardi, per poi riaccenderla poco alla volta, a partire dai luoghi più a rischio. Forse però ci si rassegnerebbe ad ammettere la nostra angosciosa dipendenza da elettroni e stimolazioni. Ci rattristeremmo e niente sarebbe più come prima. Una mosca potrà cambiare il mondo? Saremmo noi, orfani della saggezza, che non dimostreremmo di non avere più alcun potere di cambiare il nostro automatizzato destino. Ben venga dunque la mosca, se servisse a farci fermare il mondo per un attimo e tornare a interrogarci sui valori, quando posandoci sulla nostra faccia ci costringesse a tornare allo specchio e scoprire infine come siamo diventati in questi lunghi anni di pace apparente.
Alle volte la soluzione migliore è quella meno prevista, come non fare niente potrebbe essere meglio che dannarsi a creare confusione per risolvere a tutti i costi l’ignoto. Come dire che per combattere l’insetto la soluzione migliore sarebbe che il mondo si mettesse in ferie tutto insieme all’unisono per quei primi giorni dell’anno. Pensate a come sarebbe bello e a quanto progresso reale provocherebbe una soluzione non-tecnologica come questa!