Nata un paio d’anni fa, in coincidenza con la campagna elettorale di Walter Veltroni, la Fondazione Daje è un’iniziativa online che mescola molte cose: dai video di Diego “Zoro” Bianchi, già noto in rete e ora da diversi mesi protagonista anche a Parla con me di Serena Dandini su RaiTre, fino alla copertura in streaming di eventi elettorali, alle serate di simpatizzanti del Pd, ma anche alla satira “fuocoamichista” di Pattuja: un foglio in pdf, che richiama nell’impostazione e nella qualità le prime pagine di precedenti fogli satirici. Un’iniziativa, quella della Fondazione Daje, anomala, perché perennemente in bilico fra satira e sentimento di affettuosa – anche se critica – partecipazione politica; di professionismo e di amatorialità. Di citazionismo e di sperimentazione in rete. Proprio per queste sue anomale caratteristiche ne abbiamo parlato con due fondatori, Antonio Sofi e Diego Bianchi, il Zoro televisivo.
Che cos’è e com’è nata la Fondazione Daje?
AS: La Fondazione Daje è nata in un momento preciso: Diego Bianchi aveva fatto questa serie di video, Tolleranza Zoro, che preesisteva e che era giunta alla nona puntata. Era una puntata particolare, perché raccontava la fine della campagna elettorale di Veltroni. Lui era sotto il palco di Piazza del Popolo al comizio conclusivo, e a un certo punto, nel tentativo disperato di darsi una spinta almeno alla fine di una campagna un po’ moscetta, tirò fuori questo “daje!”, da sotto, insieme alla gente. Si rivolgeva a Veltroni e gli faceva “Daje, daje, de più, più forte”, anche perché Veltroni era un po’ moscio in quella situazione. Ed era un “daje” per Veltroni, ma era un “daje” di autoconvincimento. Era voglia di esaltarsi, di prendersi un po’ in giro, di convincersi che quello era un vero leader. Ci piacque molto, a me e ad altri che fummo i primi fondatori. Pensammo di crearci intorno un piccolo movimento, ma un movimento solo fra virgolette, perché non ha mai ambito a essere niente se non un momento di “cazzeggio”, per intercettare un sentimento che sentivamo diffuso nella base del Pd.
Le vostre iniziative, infatti, prendono di mira proprio il Pd e le sue contraddizioni. Dal di dentro, visto che siete simpatizzanti. Voi stessi avete usato l’espressione di foglio “fuoco amichista” per Pattuja. Può funzionare una satira dal di dentro, che prende di mira la propria parte? A memoria non me ne vengono in mente altre…
AS: Veramente a me ne vengono in mente diverse. In realtà tutta la satira della sinistra ha sempre preso ampiamente in giro la sinistra. Penso a Cuore, penso a Tango.
Certo, ma non nascevano con l’intento di prendersela con la sinistra. L’ironia a sinistra era a complemento. “Hanno la faccia come il culo”, uno degli storici titoli di Cuore non era riferito alla propria parte, per dire. Qui invece, voi non fate proprio satira su Berlusconi, sul centrodestra, e vi concentrate esclusivamente sulla vostra parte politica, quella che sentite più vicina. Con affetto, ma chiaramente. Mi sembra una spinta in avanti di una tendenza autoironica che c’era, è vero, ma che non era mai arrivata a “escludere” dal proprio campo visivo la controparte politica.
AS: Sì, anche se qui il concetto di “militanza” è un pochino lasco, nella Fondazione. Negli anni abbiamo fatto dei piccoli sondaggi e nessuno aveva la tessera. Non è una vera e propria militanza. È un’appartenenza ideologica, di pensiero, di animo, di cuore, che si esplica in una presa in giro ovviamente affettuosa e vuol essere di pungolo.
DB: Il prendere in giro soprattutto il Pd è venuto automatico a tutti. Era un periodo particolare. Il partito democratico era talmente paradossale, la situazione talmente confusa. Non ci siamo mai messi con l’intenzione “adesso famo satira”: noi facciamo quello che ci viene e il nostro è il tentativo di essere costruttivi, seppure con un riso amaro. Ciò che viene apprezzato, anche dalla base, dagli elettori, è comunque il fatto che lo si faccia in maniera autentica e nel tentativo di far passare anche qualche messaggio, qualche contenuto. Con un sorriso, una battuta e cercando di essere meno seriosi, il tentativo è quello di riflettere sulle scelte fatte, sulle strade prese.
AS: Considera anche che al tempo l’identità del Pd si stava appena costruendo. C’era confusione su che cosa potesse essere, sul rapporto con i partiti che lo componevano all’inizio. Insomma, era una specie di magma molto divertente di animi, di pensieri, di idee che confliggevano spesso. Dentro c’era una miniera di spunti per riflettere. E poi non ci dimentichiamo il momento di Veltroni, che è stato un po’ il catalizzatore di molti malumori. All’epoca si diceva spesso che se si fosse fatta una manifestazione con gli elettori del Pd contro il Pd sarebbe stata un successo. Un momento bizzarro, però ci è sembrato di rappresentare un pezzettino del popolo Pd, un po’ digitale, connesso, che non si riconosceva del tutto nel partito.
Anche l’idea di chiamarla Fondazione, credo, rimandi alla moda delle fondazioni politiche che sono spuntate a sinistra (e poi anche a destra) negli ultimi anni…
AS: Esatto. All’inizio nell’idea di partito “moscio”, leggero, veltroniano, che si doveva attivare solo per le elezioni, ma che poi sul territorio non c’era, una roba leggera all’americana spuntavano come funghi fondazioni, gruppi di lavoro. Quelle che prima erano le correnti, ora erano la fondazioni. Noi ci siamo chiamati Fondazione per prendere in giro questo fenomeno. La cosa curiosa è che siamo finiti in articoli di giornali e libri sui think-tank della sinistra. C’erano articoli di giornale che ci inserivano davvero nella “galassia” delle fondazioni di sinistra.
I giornali quindi ci son cascati. E i dirigenti hanno avuto qualche reazione?
DB: Mah, in quando Fondazione Daje, direi di no. Ma considera che anch’ io, che poi son finito su giornali, in televisione, ho fatto fatica a farmi considerare dai dirigenti. Alla fine, visto che poi c’era la telecamera, sono passati ai baci e agli abbracci, ma all’inizio, quando mi son presentato con questo strano oggetto che erano i video, m’hanno proprio ignorato. Poi questo embargo è finito, anche perché poi davo voce a cose che molti pensavano.
Quanto conta la romanità? Penso a “Daje”, “Pattuja”, altre scelte linguistiche. È anche una satira della romanità che secondo alcuni (penso alle polemiche sul “partito del nord”) è troppo presente nel Pd?
AS: Noi glielo diciamo a Diego di non parlare romano, però lui non ne vuole sapere. Per la verità, per un periodo, quando abbiamo pensato di darci un po’ di stabilità e di struttura di associazione, avevamo pensato di mettere la sede dell’associazione a Bassano del Grappa. Presso la sede del Pd di Bassano, che era un Pd sfigatissimo assediato dalla destra, dalla Lega. Erano pochi e per questo ci piaceva l’idea di comunicare che avevamo la sede a Bassano del Grappa. Poi non se ne fece niente, anche perché la maggior parte delle persone che ruotano attorno alla fondazione sono di Roma e si nutrono delle cose della politica romana. Però devo dire che sia a livello web sia nell’accoglienza di alcune cose fatte fino a qualche tempo fa, avevamo riscontri da tutta Italia: da Trieste, da Napoli, da Aosta. E anche nell’intenzione erano cose che avevano a che fare con il Pd di tutt’italia.
Ci sono differenze nella libertà di espressione in rete e fuori dalla rete, nei cosiddetti media tradizionali?
AS: Mah, noi abbiamo sempre scritto quello che ci pareva, e ci mancherebbe altro che non fosse così. Non so se abbiamo mai fatto della satira offensiva. Non era questo il nostro registro. L’affetto, la costruttività di un’iniziativa che cercava di trovare un senso al progetto, e che cercava di migliorarla, erano evidenti. Con questa logica da amici che si ritrovano al bar per trovare poi l’aspetto più divertente, la rete era il modo migliore per pubblicare il progetto. Abbiamo fatto anche degli esperimenti innovativi: ad esempio le dirette web dalle manifestazioni del Pd, io al telefono in streaming con Diego che era lì con la telecamera e faceva da cronista. Eravamo le uniche fonti a raccontare in diretta quello che succedeva, perché non c’erano nemmeno le televisioni e le radio di partito, come YouDem. Ci sono stati eventi che abbiamo coperto solo noi.
A questo proposito: le iniziative vengono create, organizzate più attraverso strumenti di rete (chat, mail) o attraverso incontri di persona?
AS: Noi ci riuniamo di persona, nel pub sotto casa di Diego, il Killer Beer. Quello è il nostro quartier generale. E poi ci sono state le Daje Night, a Roma e a Firenze. Un momento dove la piccola comunità attorno al “dajismo” si è incontrata. Sono state serate di una bellezza emotiva che veramente ci è rimasta nel cuore. Dalle prime cento persone che riempivano in piedi una saletta di San Lorenzo per vedere i video di Diego e parlare di politica fino alla notte delle elezioni in cui telefonavamo a Franceschini, Serracchiani, Renzi per avere i risultati in diretta e condividerli con le centinaia di persone che erano lì. Poi non abbiamo più avuto la forza, la voglia di continuare, ma se questo progetto dovesse riprendere vita, ripartirà da questi momenti. Poi le cose online sono fatte soprattutto attraverso strumenti di rete: c’è un basecamp interno dove discutiamo, presentiamo le cose. Abbiamo fatto il sito web, i video (beh, quelli li ha fatti Diego). Poi ci è presa l’idea del giornalino, che riprendeva un po’ l’idea del vecchio ciclostile, anche nel nome, che è una citazione di un vecchio giornale comunista degli anni ’50.
Qual è il futuro della fondazione, se c’è?
AS: Diego è il leader e deve dare la linea.
DB: La Fondazione Daje ora come ora è un po’ moscia, ma può resuscitare da un momento all’altro. È vero che con Veltroni chiunque avesse voluto cimentarsi con la satira si sarebbe esaltato. E noi l’abbiamo fatto, effettivamente. In questo momento non ci attira, ma non è perché non ci sia da fare satira. Io per lavoro, perché mi pagano e perché mi va, credo di aver dimostrato che con Veltroni non sono certo finite le occasioni di fare satira o di pungolare il partito democratico. Anche con l’attuale gestione ci sono stati episodi poco comprensibili, che potevano essere oggetto di satira. Basti pensare al caso Vendola in Puglia o al dopofestival di Sanremo.
C’è stata una fioritura di iniziative satiriche online. Perché?
AS: Io penso che ci sia stato negli anni un restringimento dell’offerta di satira nell’editoria tradizionale. Mentre è curiosamente aumenta nella rete. Perché c’è una domanda, evidentemente. La rete non è un mondo altro, la rete fa parte della società. Il bisogno di satira persiste, il re è nudo, raccontare la reazione da parte delle persone a ciò che non ti piace, una risata che sberleffa il potere, è una domanda che esiste a prescindere da chi è al potere. Negli anni scorsi era ampiamente soddisfatta da una produzione che veniva dai media tradizionali: giornali, riviste, molte trasmissioni televisive. Questa sorgente si è seccata ed è difficile oggi trovare dei luoghi dove esprimere questa necessità. E allora, in modo naturale, sono nati spontaneamente luoghi in cui abbeverarsi di satira online.
Perché si è essiccata questa fonte editoriale?
AS: Ci ha avvolto una cappa culturale.
DB: Intanto i giornali adesso fanno fatica a stare in piedi. Lo dico perché alcune esperienze cartacee di satira hanno chiuso perché non erano proprio giustificate. Non perché non funzionassero, ma perché la satira è sempre considerata un po’ minore all’interno di un giornale. Bene o male Emme era un inserto dell’Unità, e dovendo chiudere qualcosa, non è che chiudevano l’Unità. Andando in quella direzione, è chiaro che chiude prima l’inserto satirico.
Non è un caso che adesso l’Unità faccia un tentativo con Virus, e che il Fatto lanci un suo inserto satirico (il Misfatto, ndr): è un giornale in espansione che ha un rapporto forte con la sua comunità, e, a prescindere da quel che uno possa pensare di quel giornale, sta creando un po’ un caso, totalmente in controtendenza nell’editoria italiana. Poi dipende da quanto ci crede chi ci mette i soldi.
Diego, qual è la tua esperienza con la Rai?
DB: Ormai è un anno e mezzo che sto con loro, mi trovo bene. Fin dall’impatto iniziale, ho sempre fatto le cose che volevo, la satira che volevo. A parte questioni sui tempi televisivi, che sono un po’ più brevi. Il mio proposito era di tenere un livello qualitativo medio-alto. E devo dire, anche in maniera presuntuosa, che ci sono riuscito. Del resto non avevo nulla da perdere, perché di fatto io un lavoro ce l’avevo. Lavoravo in Excite, non è che sono andato io da loro a chiedergli “per favore, fatemi fare i video”. Questo mi dava un po’ di potere contrattuale. Ho chiesto loro di poter fare le stesse cose che facevo per il web. Con lo stesso format, dicendo le cose che dicevo online, senza particolari censure e continuando a metterle anche online, anche in versione un po’ più lunga di quello che andava in onda. Queste condizioni sono state tutte accettate. E quindi ha funzionato.
È interessante che un contenuto pensato per la rete, dove si ritiene che il pubblico sia di nicchia, abbia funzionato anche in televisione, non trovi?
DB: Sì, e non solo. Ultimamente sto facendo video sempre più lunghi. Non perché l’abbia deciso io, ma perché me lo fanno fare. Nel senso che all’inizio uno rimane più nei tempi televisivi, 5-6 minuti, e io sacrificavo materiale. Il video che ho fatto in Puglia è durato 11’40” ed è andato tutto in onda. Poi online ne ho messi 13′, perché avevo sette ore e mezza di girato, però va benissimo, vuol dire che funziona. Tieni conto che non è che su queste cose si possa essere molto permissivi. Se ci si rende conto che una cosa non va, non va, non è che te la fanno fare. Quindi sono contento.
AS: Questo è un aspetto interessante, perché i video di Zoro su YouTube erano di 10 minuti e questa caratteristica ha influenzato la televisione, dove un video di tre minuti è già lungo. Sono una cosa enorme. Però di fatto il web ci ha insegnato che il tempo può essere più lasco, e che 10 minuti, se li riempi di contenuti, vanno via benissimo. Anche nelle recenti campagne elettorali i candidati mettono online video più lunghi di quelli che vanno in tv, c’è una fame di contenuti. Il web ha un po’ insegnato a prendersi i tempi che non sono più quelli della battuta veloce, ma sono i tempi del reportage, 11-12 minuti. Le cose dell’elezione in Puglia, per esempio, non son immagini che vedi tutti i giorni in televisione. Prima le vedevi solo online, adesso sono passate anche in tv. Anche su Fondazione Daje abbiamo fatto qualcosa che richiama la logica autarchica di cui è un esempio Diego, perché alla fine i podcast ce li siamo fatti a casa, lo streaming web ce lo facevamo da casa, Pattuja ce lo facciamo in casa. È una logica che ti permette di provare a restare in quel territorio di margine tra professionismo e amatorialità, dove hai il calore della comunicazione e il piacere di fare le cose per divertimento, ma offrendo un livello alto di qualità. Quando mi chiedo cosa faremo con Fondazione Daje, beh, qualsiasi cosa decideremo di fare cercheremo senz’altro di stare in quel territorio. Senza diventare professionisti né cercando modelli di business che non ci interessano, ma tenendo alta alta la barra della qualità nelle cose che facciamo.