Internet, dopo i proclami di guerra lanciati da discutibili pirati informatici con improvvisa passione patriottica, svolge adesso un’importante opera di aiuto e ricostruzione per l’Afganistan, grazie a un sito creato da esuli afgani che vivono nella Silicon Valley in California.
Queste persone hanno creato Virtual Nation, un luogo dove trovano spazio le organizzazioni che cercano di lanciare programmi in Afganistan e i migliaia di esuli afgani sparsi negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e in Germania che vogliono partecipare al processo di ricostruzione.
Per la maggioranza di loro, fuggiti dal paese agli inizi degli anni ’80 dopo l’invasione sovietica, la guerra intrapresa dagli americani contro Bin Laden e il regime talibano ha ridato la speranza in una stabilità che potrà ridare vita al loro paese dopo decenni di guerra.
“Non torneremo più alla situazione precedente”, dice con speranza Vaus Aslaun, 28 anni, responsabile e fondatore di Virtual Nation, che fa parte di un gruppo di esuli afgani determinati nello sforzo di ricostruire il loro paese.
Con la collaborazione di cinque ONG afgane e di organizzazioni del rango della Banca Mondiale, il portale raccoglie una banca dati nel campo delle costruzioni, dell’educazione, delle telecomunicazioni, della sanità e della finanza. Tutti settori da ricostruire partendo spesso da zero.
Come spiega Afzal Rashid, membro del consiglio di amministrazione della ADA, l’associazione di sviluppo dell’Afganistan, la più grande ONG del paese: “L’Afganistan manca in modo cospicuo di risorse umane e di conoscenze tecniche. Virtual Nation sarà utilissima. Il solo modo di arrivare a costruire un paese e una stabilità duratura in Afganistan, oltre al sostegno dei governi è avere una società civile forte”.
Nata nel 1999, per qualche afgano la società era un mezzo per preservare soprattutto la lingua e la cultura attraverso il sito Internet.
Adesso il suo interesse è cresciuto e operando sotto i concetti di “comunità, cultura, compassione”, ha cambiato senso per molti afgani.
“Dopo 24 anni di guerra – spiega Aslaun – nessuno sapeva che fare. È stato come chiamare aiuto nel deserto, ma nessuno era là ad ascoltare. Il nuovo interesse portato dagli Stati Uniti a questa questione ha rilanciato lo spirito, perché le luci sono puntate sul cuore dell’Asia”.