Internet Addiction è un tema che, dopo i suoi “momenti di gloria” sulle prime pagine dei giornali, sembra non interessare più nessuno o, per meglio dire, questo è ciò che emerge dal filtro mediatico. Sono stati scritti negli anni recenti migliaia di articoli che descrivevano questo nuovo disturbo psicologico attraverso storie quasi paradossali di persone che distruggevano la loro vita reale per quella virtuale. Raramente si è letto di ricerche scientifiche.
La Internet Addiction ha fatto il giro dei media e alcuni casi-limite sono stati piazzati in prima pagina: una donna americana nel giugno 1997 fu accusata di trascurare i figli per frequentare le comunità virtuali. Ne abbiamo lette di tutti i colori: cyberorfani o cyberdenutriti (appunto), cybervedove il cui marito annullava la propria esistenza reale per quella virtuale, cyberlicenziati, cyberbocciati, cybersquattrinati (bollette troppo care!), ecc.
Ma oggi non si trova molto in rete sull’argomento che non sia vecchio di un anno, per cui decisamente datato: tempi che per i media, e la rete soprattutto, significano fine dell’interesse, fine della notizia, insomma film già visto.
Esisteva un sito intitolato Netaholics Anonymus, ma le sue tracce si sono perse e al suo indirizzo resta solo un messaggio di chiusura, di cessata attività. Ne esiste un altro con questo titolo, ma non è niente di serio rispetto alla malattia: un sito per invasati della rete che hanno voglia di dialogare; anche l’elenco dei sintomi principali della Internet Addiction è semplicemente una parodia delle ricerche scientifiche condotte sul tema. Mental Health Net invece, un sito con oltre 14.000 iscritti, menziona la Internet Addiction e ha costituito delle liste di discussione sul tema.
Se non fosse per gli studi della psicologa Kimberly Young e di alcuni altri, potremmo catalogare la storia dell’Internet Addiction nel filone giornalistico delle leggende metropolitane, quelle storie che esaltano a catena i giornalisti e che i protagonisti giurano essere verissime, ma di cui esistono poche prove concrete. Invece c’è qualcuno che l’Internet addiction l’ha studiata con serietà e attualmente, oltre a scriverci un libro, sta puntando i piedi per ottenere che l’American Psychiatric Association riconosca IAD (Internet Addiction Disorder) ufficialmente: nel sito dell’organizzazione americana infatti, per il momento, nonostante le insistenze della Young, tra le molteplici malattie mentali menzionate non se ne trova traccia.
La psicologa Kimberly Young, che fra i primi ha studiato la questione, riceve comunque numerosi accessi al suo sito Center for On Line Addiction, per consulenze telematiche. Il suo studio risale all’estate del 1997 e fu presentato al congresso annuale della, a quanto pare dubbiosa, American Psychiatric Association.
Lo studio della Young è abbastanza conosciuto e la sua autrice è ormai nota nel settore. La perdita della capacità di limitare il proprio tempo attaccati alla rete è la conseguenza-sintomo principale della “sindrome di Young”: la psicologa paragona l’Internet Addiction a disturbi comportamentali (e ovviamente non a tossicodipendenze da sostanze) come la bulimia e il vizio del gioco d’azzardo portato ad eccessi patologici. Si parla anche dell’incapacità di smettere di fare acquisti, come termine di paragone.
Nascono spontanee le prime perplessità: di solito chi non riesce a dominare la mania di fare acquisti viene etichettato come “uno con le mani bucate” non come un malato. Inoltre, perché nessuno ha mai pensato di definire malata una persona che legge otto ore la giorno?
Non è invece definito un rispettabile intellettuale? Ogni attività può essere portata agli eccessi e, come afferma per altro la stessa Young, quando questi diventano patologici nella maggior parte dei casi sono legati ad altri disturbi psicologici o disagi sociali, che rappresentano la vera causa del disturbo mentale espresso sotto forma di dipendenza.
Il punto è riuscire a scindere posizioni scientifiche da posizioni ideologiche. Se la Young non fosse una Internet-integrata a tutti gli effetti verrebbe da pensare alla solita tecno-fobia allarmista. La sua ricerca è stata condotta sulla rete, in cui fu diffuso un annuncio che recitava “cercasi avidi utilizzatori della rete”. La Young ha dunque selezionato 396 soggetti autocatalogatisi come dipendenti, il che toglie valore statistico alla ricerca senza per altro annullarne totalmente l’interesse, e un gruppo di controllo di 100 non dipendenti.
I dati sono curiosi se rapportati alla popolazione di Internet: 239 donne e 157 uomini. Le donne avevano un’età media di 43 anni con 15.5 anni circa di scolarizzazione. Il 42% erano casalinghe, disabili, pensionati e studenti. Sappiamo che la popolazione Internet ha altre caratteristiche: la maggioranza sono uomini, altamente scolarizzati e lavoratori. Il dato va letto considerando però che ovviamente l’indagine escludeva le persone che utilizzano la rete per lavoro. Per quanto riguarda i disabili sorge comunque una domanda: si può parlare di dipendenza o si tratta invece di una delle poche forme di socialità “realmente” accessibili?
In sintesi dalla ricerca emergeva che i dipendenti utilizzavano la rete per un tempo otto volte superiore ai non dipendenti (in particolare IRC, usenet, e-mail, WWW) e che gli “addicted” avevano incontrato dei problemi economici, sociali e professionali legati all’utilizzo eccessivo della rete.
Molti ricercatori e psicologi hanno contestato il valore statistico della ricerca e inoltre hanno sottolineato che l’esistenza di casi in cui l’utilizzo eccessivo della rete ha causato problemi sociali, professionali, scolastici o famigliari, non giustifica la definizione di dipendenza psicologica e di disordine mentale.
Lo sviluppo di Internet aumenterà comunque il tempo che gli utenti spendono sulla rete perché essa acquisisce sempre maggiori funzionalità. Già oggi potremmo svolgere molteplici attività in rete senza annullare la nostra vita reale ma, al contrario, aumentando il nostro tempo libero: gestire la corrispondenza elettronica, fare operazioni di homebanking e qualche acquisto, verificare i titoli e le novità di biblioteche, librerie, videoteche, ecc., frequentare corsi online che diversamente non si avrebbe la possibilità di seguire, prenotare online viaggi e intrattenimento, ma anche guardare concerti online in locali oltreoceano, frequentare qualche chat, leggere quotidiani, ascoltare radio estere, ecc. L’elenco è molto lungo, ma sembra difficile definire dipendente chi utilizza tutte queste risorse della rete, anche se rimane connesso per molte ore.
Per quanto riguarda la Internet Addiction la Young avverte: “I net dipendenti hanno bisogno di un aiuto professionale subito, nessuno sta prendendo la cosa sul serio: molti professionisti non conoscono Internet e non sanno nulla sulla Internet Addiction”. Impareranno dal suo libro di prossima pubblicazione.
In ogni caso, se si tratta davvero di una patologia, ne risentiremo presto parlare, se invece è la solita bolla d’aria gonfiata dai media, ne risentiremo parlare ugualmente perché le leggende metropolitane non muoiono mai, sono cicliche.
Netaholics Anonymus: http://www.earthplaza.com/netaholics/
Netaholics Anonymus N° 2: http://www.geocities.com/Heartland/Bluffs/8100/
Center for online addiction di K. Young: http://netaddiction.com
American psychiatric association: http://www.psych.org/main.html