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Il tweet di Shurtleff, ben più che 140 caratteri

30 Giugno 2010

Il tweet di Shurtleff, ben più che 140 caratteri

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Il governatore dello Utah annuncia su Twitter l'autorizzazione all'esecuzione di un condannato a morte. Quanti significati in così poche parole

Abbiamo letto su Twitter post arrabbiati di spettatori dei mondiali di calcio. Ci siamo intrattenuti con messaggi fulminanti dei nostri amici che creano commenti di contrappunto alla vita quotidiana. Capita che in 140 caratteri ci lasciamo informare di accadimenti del mondo più lontano. Raramente capita di vedere comunicare una sentenza di esecuzione. È successo con un tweet che il procuratore generale dello Utah Mark Shurtleff ha scritto dal suo iPhone il 18 giugno per dichiarare la condanna a morte con plotone d’esecuzione di Ronnie Lee Gardner: «Ho appena autorizzato il direttore del carcere a procedere con l’esecuzione di Gardner. Possa Dio avere per lui la pietà che egli ha negato alle sue vittime».

Death-streaming

Come scrive BBC News: «un modo molto moderno per annunciare una morte molto vecchia maniera». In questo gesto di comunicazione quotidiana nelle logica dei social media possiamo osservare l’intrecciarsi di tre ambiti. Quello della comunicazione pubblica, in cui un pubblico ufficiale eletto dal popolo usa i post come veicolo di relazione interpersonale istantanea con il proprio elettorato, come strumento di dialogo con l’opinione pubblica, saltando quegli strati di intermediazione tradizionali cui siamo abituati. Quello della relazione tra forme di comunicazione e forme di potere, visto che ci troviamo di fronte a una scelta che sembra ricadere direttamente nelle mani di Shurtleff che posta dal suo iPhone più che di un atto istituzionale con risvolti burocratici e legislativi. Infine quello della morale, sollecitata dalla dichiarazione attraverso uno strumento come questo di un atto di messa a morte, commentato con un giudizio che ha a che fare più con l’ambito religioso che con il sistema della giustizia americana.

Shurtleff ha molte migliaia di cittadini che seguono (potenzialmente) i suoi tweet e la pratica del re-tweet fa circolare in poche ora la prima autorizzazione alla pena di morte via twitter della storia. Immediatamente emergono due conversazioni che si intrecciano di (re)tweet in (re)tweet: la moralità della pena di morte e la moralità di twittare la pena di morte. Molti tra coloro che re-twittano infatti aggiungono al messaggio aggettivi come «disgustoso» o «shoccante». Zyxee sintetizza così: «wow that @MarkShurtleff tweet is the most horrible tweet ever!». Heardling polemizza: «and now YOU are a KILLER! When is your execution?».

Trasparenza

Shurtleff, sempre dal suo canale Twitter, risponde a questo pubblico: «Astonishing that no retweet whiner express outrage that Gardner shot 2 men in the face, & a cop; nor one word of empathy for their families». Un uso del mezzo che richiama la forza della parità conversazionale, quella possibilità di rispondere in tempo reale che trasforma in chiave dialogica ogni news. Evidentemente il procuratore generale non si limita a usare Twitter con pratiche da ufficio stampa, lanciando nel flusso dei post massime e sentenze. Sa che l’importanza di ciò che scrivi è proporzionale all’efficacia della tua capacità di ascolto. Che è l’unica via per costruirsi reputazione in questo campo della comunicazione. Ma è anche un gesto utile alle PR, che precede un tweet nel quale comunica la conferenza stampa da seguire in streaming dal suo sito: «We will be streaming live my press conference as soon as I’m told Gardner is dead. Watch it at www.attorneygeneral.Utah.gov/live.html».

Ma la trasparenza comunicativa va sostenuta a tutti i costi? Anche nell’annunciare una condanna a morte? attraverso Twitter? Shurtleff risponde a domande come queste sempre entro i 140 caratteri: «I believe in an informed public. As elected official I use social media to communicate directly with people». Come dire: la mia voce è direttamente rappresentata dalle parole che io scrivo e la diffondo attraverso le connessioni che possiedo. Senza filtro. Ma il messaggio è ancora più profondo: lo faccio perché sono “eletto” dalla gente. In un altro tweet scrive: «non rinuncio al primo emendamento». Se rileggiamo bene le parole che ha usato nel suo tweet ci troviamo di fronte ad una forte relazione tra comunicazione e potere giocato nel campo dei media sociali. Dallo stesso luogo in cui vengono veicolate passioni ed emozioni del quotidiano, come la gioia per la vittoria ai mondiali degli Stati Uniti («USA WINS! USA WINS! Donovan on 90+1min goal advances USA into World Cup Round of Sixteen!») si tratta un tema di rilevanza pubblica straordinaria: una cosa è il tifo calcistico, altro quello per la pena di morte. Eppure, nello streaming, diventano equivalenti.

Differenze

Mathew N. Schmalz, docente di studi religiosi, spiega sul Washington Post che twittare l’autorizzazione dell’esecuzione rivela tutta la forza di uno spettacolo burocratico de-umanizzante. Di fatto quello che emerge è un puro atto di potere più che di giustizia che si declina nella comunicazione personale di Shurtleff a una audience indifferenziata: è lui che lo condanna, non la giustizia o lo Stato. E lo fa con un linguaggio dai toni quasi sloganistici, aprendo il mezzo alle forme di comunicazione di massa tradizionali cui siamo abituati. Ma la solennità di questo gesto non è la stessa di un gol. La ritualità che risiede dietro un’esecuzione capitale non ha la stessa densità di senso che troviamo dietro una partita di calcio. C’è una differenza di valore che in questo modo sfugge. Ci sono eventi che spesso ci lasciano senza parole, che non hanno le parole giuste per essere raccontati in 140 caratteri, che hanno necessità di canali e forme diverse. Come se un capo di stato twitasse in terza persona: «dichiara guerra a Leonia». Forse per questo Shmalz sintetizza in meno di 140 caratteri il senso di tutta la vicenda: twittare la morte rende triviale la vita.

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