Con The Language of New Media, Lev Manovich, professore associato nel dipartimento di Arti Visuali dell’Università della California a San Diego, nonché teorico, artista e saggista (un suo brillante pezzo è apparso nel seminale The Digital Dialectic: New Essays on New Media di Peter Lunenfeld, 1999), tenta una analisi rigorosa e sistematica del fenomeno dei new media, tracciandone la genesi teorica e lo sviluppo storico.
Titolo: The Language of New Media
Autore: Lev Manovich
Casa Editrice: MIT Press (Leonardo Series)
Data di Pubblicazione: 16 Aprile 2001
Pagine: 354
Prezzo: $35
Secondo Manovich, i nuovi media sono prima di tutto nuove forme culturali che dipendono dai computer per quanto concerne la loro presentazione e distribuzione: siti Internet, mondi virtuali, multimedia, video games, computer grafica e computer animation.
Manovich esplora a fondo il rapporto incestuoso che lega nuovi e tradizionali media, le congruenze e le incongruenze che li accomunano e li distinguono. L’incesto di cui parla l’autore consiste, de facto, nella riallocazione in forma digitale delle convenzioni della fotografia e del cinema. Il passaggio dall’analogico al digitale non determina la scomparsa di concetti cruciali quali “inquadratura”, “montaggio” ed altri ancora: al contrario, prevede la loro traslazione ed aggiornamento. Le sue teorie sono in parte riconducibili a quelle di Bolter and Grusin (1999), i quali avevano sottolineato la tendenza dei new media a “re-mediare” quelli esistenti. Tale fenomeno assume la forma della rappresentazione, riformattazione e dell’aggiornamento dei media tradizionali nei nuovi attraverso una serie di processi che hanno conseguenze di carattere formale e sostanziale.
Prendendo spunto da queste teorie (che in fondo ricordano quelle di McLuhan, si veda il concetto dello “specchietto retrovisore”), Manovich esplora l’estetica dei nuovi media e dei vecchi alla luce dei nuovi. Secondo l’autore, la computerizzazione della cultura non conduce semplicemente all’emergere di nuove forme artistiche. Al contrario, comporta una significativa ridefinizione di quelle esistenti. L’autore si domanda se, come e perché il passaggio al digitale abbia ridefinito la natura delle immagini e quali nuove possibilità estetiche abbia attivato.
L’analisi di Manovich è omnicomprensiva e multidisciplinare. L’autore si avvale di metodi di analisi che spaziano dai film studies, alla narratologia, dalla computer science alla storia dell’arte. Manovich utilizza le teorie del cinema e la sua evoluzione come chiave di lettura dei nuovi media. L’autore evidenzia in modo preciso e puntuale i parallelismi tra le storie dei due media, la natura del cinema digitale, le relazioni tra il linguaggio del multimedia ed il proto-cinema del diciannovesimo secolo, la funzione rappresentativa dello schermo, del punto di vista e del montaggio e parla della sottile linea rossa che lega il film d’avant-garde ai new media.
Il libro è impreziosito da un portfolio di immagini tratte da un classico della cinematografia sovietica, L’uomo con la macchina da presa (1929), di Dziga Vertov. Dietro a questa scelta si cela, ancora una volta, la volontà di sottolineare la continuità tra vecchi e nuovi media: Manovich dimostra che alcune delle marche di riconoscimento più tipiche dei new media sono già presenti nell’avanguardia russa, la cui funzione storica è stata quella di prefigurare per mezzo della sovversione e della provocazione artistica alcuni degli scenari futuri.
Anziché limitarsi a riciclare concetti già ruminati da altri, Manovich elabora una nuova teoria che definisce “materialismo digitale”: “anziché imporre dall’alto e a priori una teoria dei media, ho preferito costruire una nuova teoria partendo dal basso, dai new media stessi.” (p.10) La conclusione di Manovich è che la portata rivoluzionaria dei new media andrebbe nettamente ridimensionata. Discutendo il ruolo e la funzione delle “interfacce culturali”, per esempio, Manovich dimostra come le interfacce dei nuovi media siano modellate su tre tradizioni culturali ben precise: la carta stampata, l’interfaccia uomo-macchine e soprattutto il cinema.
The Language of New Media presenta una struttura ellittica ma allo stesso tempo frattale: anche se il punto di arrivo e di partenza tendono a coincidere, le singole sezioni sono perfettamente autonome e possono essere fruite singolarmente. Il saggio si apre (e si chiude) con una domanda: “What is New Media?“. Nel primo capitolo, Manovich discute le quattro caratteristiche essenziali dei nuovi media (nella fattispecie, “rappresentazione numerica”, “modularità”, “automazione”, “variabilità” e “transcoding”), nonché la loro organizzazione logica. Manovich discute luoghi comuni (vedi l’illusione del digitale ed il mito dell’interattività).
La seconda parte, “The Interface“, investiga la dicotomia tra rappresentazione e simulazione, l’interazione uomo-macchina, la funzione allegorica dei sistemi operativi.
In “The Operations” (terza parte), Manovich spiega perché Photoshop esemplifica paradigmaticamente le teorie post-moderne e lamenta lo smarrimento dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità digitale. Manovich esplora anche le dinamiche narrative dei nuovi media e discute il concetto di database come se si trattasse di un romanzo.
Nella quarta e forse più affascinante sezione (“The Illusions“), l’autore espone la sua personale teoria ontologica delle immagini digitali, discute le implicazioni del realismo sintetico, indaga il ruolo della tecnologia nel cinema (secondo Manovich, Georges Melies è “il padre della Computer Graphics“), e riprende il problema classico della mimesis o imitazione.
Quindi Manovich illustra come i nuovi media creano l’illusione della realtà sullo schermo. Video games come Doom e Myst e le pagine iper-testuali della rete sono brillantemente trattati da Manovich nella quinta parte (“The Forms“). Il leit-motiv è il tema dello spazio virtuale, già al centro della speculazione della Wertheim (The Pearly Gates of Cyberspace. A History of Space from Dante to the Internet, 1999). Infine, Manovich analizza le opere di Vertov e Greenway illustrando come rappresentano una perfetta anticipazione dell’era digitale.
Il lungo capitolo conclusivo, “What is Cinema?” rappresenta la sintesi delle teorie esposte in precedenza ed allo stesso punto ne è un loro superamento. Manovich descrive il linguaggio del cinema, nato dalla crescente contaminazione tra film e computer grafica. Il cinema contemporaneo, secondo Manovich, è prima di tutto informazione navigabile ed esplorabile. Il cinema è, in altre parole, codice. Siamo passati dalla cinematografia alla “cinegratografia”. Manovich traccia una serie di parallelismi tra le storie del cinema e dei nuovi media, concludendo che la maggior parte delle marche di riconoscimento dei new media sono in realtà rintracciabili, in forma larvale, inconsapevole oppure pienamente realizzata, sul grande schermo.
La prosa di Manovich è sobria, affascinante e nel complesso accessibile anche ad un pubblico extra-accademico. Grazie al cielo, siamo lontani dall’enfasi techno-determinista di Negroponte, Gilder, Pesce e compagni. L’autore investiga in modo rigoroso l’estetica dei nuovi media, senza crogiolarsi in facili profezie sul futuro.
Una lettura essenziale per capire le origini, lo sviluppo ed il futuro dei new media.
Riferimenti bibliografici
Bolter, Jay David & Grusin, Richard (1999). Remediation: Understanding New Media. Cambridge, MA: MIT Press.
Lunenfeld, Peter (1999). The Digital Dialectic: New Essays on New Media. Cambridge, MA: MIT Press.
Negroponte, Nicholas (1995). Being Digital. New York: Alfred A. Knopf.
Pesce, Mark (2000). The Playful World: Interactive Toys and the Future of the Imagination New York: Ballantine Books.
Wertheim, Margaret (1999). The Pearly Gates of Cyberspace. A History of Space from Dante to the Internet. London: Virago.