Tante tecnofirme di alieni che possiamo ricercare
La ricerca di vita extraterrestre intelligente, il cosiddetto SETI, è intrinsecamente antropocentrico: assume per ipotesi che gli alieni intelligenti siano interessati a comunicare e utilizzino una tecnologia simile alla nostra. Per questi motivi il SETI attuale è molto limitato. Per quanto riguarda le ricerche nel campo delle onde radio, ricordiamoci l’analogia della pesca in un lago. Se la porzione di universo nella quale ha cercato fino a oggi il SETI fosse rappresentata da un bicchiere pieno d’acqua, il resto del cosmo sarebbe equivalente all’acqua di tutti gli oceani della Terra.
Una strategia alternativa è cercare le tracce dell’utilizzo di energia da parte di una civiltà o le strutture che potrebbe aver creato. Paragonando questo approccio con quello seguito dagli astrobiologi, quando cercano le biofirme gassose nelle atmosfere degli esopianeti, Jill Tarter chiama tecnofirme i segni, visibili da lontano, lasciati da una civiltà aliena avanzata. Tarter dice:
Se riusciamo a trovare delle tecnofirme, ovvero delle evidenze scientifiche della presenza di una qualche tecnologia in grado di modificare l’ambiente naturale, allora possiamo dedurre l’esistenza, almeno in qualche periodo della storia di quell’esopianeta, di tecnologhi intelligenti. Come per le biofirme, non è possibile elencare tutte le potenziali tecnofirme, dato che innumerevoli tecnologie ci sono ancora ignote, ma possiamo definire delle strategie di ricerca per gli equivalenti di alcune tecnologie terrestri del ventunesimo secolo.
Esattamente come nel caso delle biofirme, anche le tecnofirme costituirebbero una prova misurabile della presenza della vita, o di una vita ormai estinta. Non sono altro che una qualunque traccia di tecnologia, dalla quale possiamo dedurre l’esistenza di vita intelligente. Fra le tecnofirme sono incluse, ovviamente, anche le comunicazioni tradizionali cercate dal SETI: segnali radio a banda stretta e impulsi laser. Il processo si articola ipotizzando una certa tecnofirma, ispirata alla vita presente sulla Terra, e poi progettando una ricerca apposita, che tenga conto della rilevabilità e unicità di quella tecnofirma.
Molte delle tecnofirme proposte sono correlate con la manipolazione di energia proveniente da sorgenti naturali luminose. Una forma di vita tecnologica potrebbe essere in grado di diffondersi in parte della galassia, per cui le sue tracce potrebbero essere trovate lontano nel tempo e nello spazio rispetto a dove quella vita si è originata. Come dice il report di un gruppo di lavoro della NASA, del 2018:
In confronto alle biofirme, le tecnofirme potrebbero essere più diffuse, più evidenti, meno ambigue e più facilmente rilevabili, anche a una distanza molto maggiore, perfino extragalattica.
L’avvento (discusso) dell’Antropocene
I primi umani moderni comparvero 200.000 anni fa e iniziarono a diffondersi fuori dall’Africa a partire da 50.000 anni fa. Si dovettero adattare, nel corso dei millenni, ai vari cambiamenti climatici subìti dalla Terra. Infatti, in quell’arco temporale la temperatura globale oscillò di ben 10°C, passando attraverso una serie di periodi glaciali e interglaciali. Con una popolazione di pochi milioni di individui, noi umani avevamo un piccolo impatto sul pianeta. A partire dalla fine dell’ultima glaciazione, 12.000 anni fa, stiamo vivendo in una sorta di giardino dell’Eden, in un’epoca che i geologi chiamano Olocene, con un clima estremamente stabile rispetto a ciò che è successo in passato. Gli umani hanno prosperato, inventato l’agricoltura e la loro popolazione è cresciuta in modo esponenziale.
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Recentemente, però, stiamo assistendo a un crescendo di attività umane che alterano profondamente la geologia, il clima e gli ecosistemi della Terra. Molti geologi chiamano questa epoca Antropocene, sebbene questo termine non sia ufficialmente riconosciuto. I cambiamenti climatici iniziarono a non procedere più in modo lineare già a partire dalla rivoluzione industriale, ma il ritmo è aumentato sensibilmente negli ultimi 60 anni. La cosiddetta grande accelerazione è contraddistinta da una forte crescita in termini di popolazione, produzione industriale, utilizzo di agenti chimici in agricoltura e scorie derivanti dalle attività nucleari. Stiamo assistendo alla più profonda trasformazione della nostra relazione con il mondo naturale mai avvenuta nella storia del genere umano.
L’ipotesi siluriana
Nonostante stiamo combattendo contro i cambiamenti climatici e stiamo causando una distruzione ambientale, l’impatto dell’uomo sul pianeta non sarebbe visibile per un osservatore remoto. Degli esseri intelligenti extraterrestri molto lontani non potrebbero vedere le nostre metropoli e le nostre costruzioni più monumentali e nemmeno rilevare il diossido di carbonio. Stiamo rilasciando nello spazio segnali radiofonici e televisivi da circa settant’anni. Questo significa che un’onda sferica, fatta di quelle trasmissioni, ha ormai attraversato molte migliaia di stelle, compresi ovviamente i loro pianeti abitabili. Ho fatto i calcoli e ho dedotto che quei segnali si sono dissipati nel rumore delle onde radio della radiazione cosmica di fondo, prima ancora di uscire dal nostro Sistema Solare. Non siamo affatto influenti nel cosmo.
Questa consapevolezza del nostro modestissimo impatto porta a delle considerazioni radicali. Forse non siamo la prima civiltà industriale a essere esistita sul nostro pianeta.
L’astrofisico Adam Frank e il climatologo Gavin Schmidt la chiamano ipotesi siluriana. La Terra è un pianeta irrequieto, con erosioni e movimenti tettonici che lasciano ancora visibile una minima parte della superficie antica. Le nostre metropoli attuali verranno completamente sotterrate in pochi milioni di anni e il processo di fossilizzazione è in grado di preservare solo una piccolissima frazione di animali deceduti. Se scomparissimo all’improvviso, fra qualche milione di anni non sarebbe rimasta più alcuna traccia della nostra esistenza. Una civiltà è rilevabile solamente se è stata molto longeva e ha utilizzato le fonti energetiche in modo intensivo.
I Siluriani erano un’antica razza di umanoidi simili a rettili, tecnologicamente avanzati, comparsi in un episodio della serie televisiva della BBC Doctor Who, nel 1970. Fantascienza a parte, l’ipotesi siluriana è considerata molto seria in astrobiologia. Possiamo immaginare quanto sia difficile determinare l’esistenza di una civiltà tecnologica su un esopianeta molto distante, se forse non siamo stati capaci di accorgerci del passaggio di una precedente umanità tecnologica qui sul nostro pianeta!
Civiltà di un certo tipo
Guardare all’Antropocene con gli occhi di un astrobiologo può aiutarci a farci comprendere quale sarà il futuro dell’evoluzione della vita sulla Terra e la potenziale evoluzione di una vita tecnologica altrove nell’universo. Nikolai Kardashev fu il primo a ipotizzare la presenza di una tecnologia molto avanzata nelle civiltà di un lontano passato. Kardashev ebbe una vita molto difficile sotto il regime sovietico di Stalin, in Russia. All’età di cinque anni, suo padre venne giustiziato e sua madre imprigionata, per cui venne cresciuto da sua zia. All’età di dodici anni incominciò a frequentare alcuni giovani astronomi del planetario di Mosca. Per molti anni il suo mentore fu Iosef Shklovsky, il cui libro del 1962 Universe, Life, Intelligence ispirò il giovane Carl Sagan e segnò l’inizio dell’astrobiologia nell’Unione Sovietica. Kardashev diede importanti contributi alla radioastronomia e ipotizzò l’esistenza delle pulsar, ma è noto principalmente per la scala Kardashev delle civiltà aliene. Nonostante le brutalità a cui dovette assistere da bambino, Kardashev era sorprendentemente ottimista che la vita nell’universo dovesse avere una comune base etica:
I concetti di moralità e bontà sono universali, proprio come il teorema di Pitagora. Le civiltà non sopravvivono se non seguono questi due precetti.
La sua scala misura quanto sia tecnologicamente avanzata una civiltà da quanta energia è in grado di utilizzare. Le categorie che egli propose nel 1964 erano tre. Una civiltà di Tipo I utilizza tutta l’energia disponibile sul proprio pianeta. Se contiamo la sola radiazione solare che arriva sulla Terra, essa è pari a 2 × 10^17 watt. Una civiltà di Tipo II sfrutta invece tutta la radiazione emessa dalla propria stella. Nel caso del Sole, l’energia totale irradiata è pari a 4 × 10^26 watt. Facendo il rapporto di questi due numeri vediamo che la Terra intercetta solo la metà di un miliardesimo della luce solare. Una civiltà di Tipo III è incredibilmente avanzata e domina l’energia di un’intera galassia. Nel caso della Via Lattea l’energia sfruttata sarebbe di 4 × 10^37 watt. Kardashev pensava che questo fosse il limite massimo raggiungibile, ma il futurista Michio Kaku ha immaginato le civiltà di Tipo IV, in grado di soggiogare l’energia di mille miliardi di miliardi di stelle, culture che abbracciano l’ampiezza dell’intero universo, e perfino le civiltà di Tipo V, che vanno al di là del proprio universo di origine e dominano il multiverso.
Tralasciando per un momento la grandiosità di queste due ultime categorie, la scala Kardashev descrive delle entità viventi con delle capacità così enormi da essere difficilmente distinguibili dalle divinità.
Siamo uomini o pesciolini?
A che punto siamo noi su questa scala? Non siamo minimamente simili a degli dei. Al contrario, siamo ben in basso, molto al di sotto della Tipo I. L’energia complessiva consumata nel mondo è pari a 20 terawatt, o 2 × 10^13 watt. Utilizziamo una quantità di energia che è un decimillesimo di quella che arriva sulla Terra dal Sole.
Potremmo essere solo dei pesciolini, nel mare delle civiltà tecnologiche dell’universo, ma sicuramente siamo in una fase molto delicata della nostra crescita. La scala Kardashev si basa sull’ipotesi che la tecnologia aumenti di sofisticazione all’aumentare dell’utilizzo dell’energia disponibile e che le civiltà più avanzate hanno necessariamente bisogno di più energia. È un modo molto schematico di ragionare, forse anche un po’ brutale, secondo il quale il progresso porta dapprima a dominare una stella, poi una galassia e, infine, l’intero universo.
Uno dei possibili strumenti teorici da utilizzare per sfruttare tutta l’energia prodotta da una stella, è chiamato sfera di Dyson. Si tratta di una struttura artificiale costruita attorno alla stella per catturare la sua energia e inviarla alla civiltà presente sul pianeta. Questa idea venne dalla mentre creativa di Freeman Dyson, un prodigio della matematica, nato in Gran Bretagna, che diede un incredibile contributo nel campo della fisica teorica. La sua sfera viene spesso descritta come un guscio solido attorno a una stella, ma Dyson sapeva bene che una tale realizzazione era meccanicamente impossibile. È più corretto immaginarla come uno sciame di satelliti a energia solare indipendenti fra loro, ma in formazione stretta, in orbita attorno a una stella.
Perfino con una sfera di Dyson che cattura l’energia emessa da una stella, ci sarà inevitabilmente dell’energia che sfuggirà nello spazio, o del calore di scarto, nella forma di radiazione infrarossa. In pratica, però, è difficile distinguere l’energia di scarto di una civiltà dall’extra energia infrarossa dovuta a svariati processi naturali. Per esempio, il gas attorno a una stella riemette parte dell’energia della stella nelle frequenze infrarosse. Uno studio effettuato su venticinquemila stelle, alla ricerca di un eccesso di emissione infrarossa, non riuscì a fornire alcun dato convincente sulla presenza di sfere di Dyson.
Sfere di Dyson e altre tecnofirme
Per il momento non è ancora stata annunciata la scoperta di nessuna firma energetica in grado di svelare l’esistenza di una civiltà extraterrestre. Qualche anno fa vi fu molta eccitazione riguardo a delle drastiche e irregolari variazioni di luminosità della stella di Tabby, chiamata così in onore del suo scopritore. Qualcuno aveva ipotizzato che tali potenti variazioni potessero essere causate da una megastruttura in orbita attorno alla stella, simile allo sciame di Dyson, costruita da una civiltà aliena. Nel 2015 gli scienziati del SETI puntarono l’Allen Telescope Array verso la stella di Tabby, ma non trovarono alcun segnale radio artificiale. In ogni caso, ci sono delle spiegazioni molto più convenzionali per quelle forti variazioni di luminosità.
In un campo di ricerca limitato solamente dall’immaginazione, sono state discusse molte tecnofirme, insieme al modo in cui potrebbero essere rilevate. Fra gli esempi più normali citiamo la luce proveniente da una città grande quanto il pianeta e gli inquinanti atmosferici, come il monossido di carbonio. Fra le idee più stravaganti citiamo, invece, i reattori stellari, con i quali una civiltà aliena potrebbe sfruttare l’energia della propria stella per accelerare in una certa direzione la stella stessa e tutto ciò che le orbita attorno, e l’utilizzo dell’antimateria come sorgente di energia.
Come caso emblematico di quanto il dibattito sia modellato dalle nostre attuali limitazioni, consideriamo le onde gravitazionali. Riuscire a modulare le increspature dello spazio-tempo sarebbe un modo eccellente per comunicare su distanze galattiche o intergalattiche. Infatti, l’intensità del loro segnale diminuisce molto più lentamente con la distanza, rispetto alla luce o alle onde radio. Inoltre, non vengono diffuse o assorbite dal pulviscolo o dal gas interstellare e nemmeno dalle stelle. Viaggiano indisturbate, senza un rumore di fondo con il quale competere. L’unico lato negativo è che viene richiesta una quantità enorme di energia per creare un segnale che risulti leggibile, una volta arrivato al destinatario. Ma una civiltà più avanzata della nostra potrebbe non avere alcuna difficoltà nel generare e interpretare le onde gravitazionali, tanto da aver abbandonato da tempo l’uso dei laser e dei radiotrasmettitori, come se fossero dei giocattoli per bambini. Soltanto negli ultimi anni gli umani sono stati in grado di misurare questo tipo molto particolare di onde. Se ci fosse arrivato, anche solo dieci anni fa, un segnale alieno costituito da onde gravitazionali, ce lo saremmo perso.
Passando a delle considerazioni molto più locali, come noi stiamo inviando le nostre sonde nello spazio, altri potrebbero stare facendo la medesima cosa. E se ci fossero dei manufatti alieni nel nostro Sistema Solare, proprio sotto i nostri occhi?
Le sonde spaziali: aghi in un pagliaio
Per essere facilmente individuabili, tali sonde dovrebbero essere molto grandi. Pensiamo al monolite di 2001: odissea nello spazio. Se gli alieni hanno inviato delle sonde in miniatura per visitarci, come stiamo faccendo noi nel Sistema Solare e potremmo eventualmente fare, in futuro, su Proxima Centauri, la probabilità che riusciamo a individuarle è molto bassa. La cosiddetta ipotesi delle sentinelle fu proposta nel 1960 dall’ingegnere Ronald Bracewell. Ma cercare le sentinelle è un altro esempio di ricerca di un ago in un pagliaio. Qualunque oggetto artificiale con una superficie piatta e metallica, comunque, si individuerà più facilmente, dato che la luce e le altre radiazioni elettromagnetiche, quando vengono riflesse da una superficie piana, si polarizzano. Vale a dire che le onde riflesse giacciono tutte su uno stesso piano. Gli astronomi hanno degli strumenti molto efficaci per rilevare le radiazioni polarizzate. Negli ultimi 4,5 miliardi di anni sono passati vicino al nostro ben cinquantamila sistemi planetari, ciascuno dei quali avrebbe potuto facilmente investigarci.
Nel 2017 gli astronomi hanno individuato un oggetto a forma di sigaro, proveniente sicuramente dallo spazio interstellare, ovvero dall’esterno del Sistema Solare. Chiamato ’Oumuamua, questo primo visitatore interstellare causò un certo fermento. ’Oumuamua sfrecciò infatti ad alta velocità attraverso il Sistema Solare, su una traiettoria iperbolica, dando molti grattacapi agli astronomi. La maggior parte degli scienziati ritiene che si trattasse di un oggetto naturale, per esempio un grosso pezzo di ghiaccio staccatosi da un pianeta come Plutone.
Anche se gli alieni non ci mandano delle sonde che possiamo individuare, le simulazioni ci mostrano che delle navi spaziali, dotate di una modesta velocità, permetterebbero agli alieni di attraversare la galassia in un lasso di tempo pari a una piccola frazione della sua età.
Se veramente esistono delle civiltà aliene, è improbabile che la nostra sia la più avanzata. Le loro capacità tecnologiche potrebbero far sembrare primitive le nostre. Vale la pena di fare ogni sforzo per trovare dei modi intelligenti di cercare quelle tecnologie: la probabilità di successo è impossibile da calcolare, ma i vantaggi che si potrebbero avere, anche solo nel portare avanti il tentativo, sono immensi.
Questo articolo richiama contenuti da Mondi senza fine.