Apogeonline: Emozioni al centro. Il marketing ha qualcosa da rimproverarsi, per non esserci arrivato prima, per non avere fatto meglio, o ci voleva una sorta di maturazione del panorama, delle conoscenze e degli strumenti che oggi ci fa vedere le cose più chiaramente?
Carlotta Carucci: Questa cosa delle emozioni in realtà era lì da sempre, che aspettava, solo che eravamo preoccupati da tante altre cose, dalle nuove tecnologie in poi, davanti a un mercato sempre più vario e complesso. Le emozioni ci sono sempre state e ci saranno sempre. Probabilmente nel passato non eravamo in grado di appropriarci delle emozioni nel marketing come invece possiamo fare oggi, potendo interagire con il pubblico con una consapevolezza e conoscenze superiori a quelle del passato.
Come si declina il marketing sulle emozioni nell’epoca del marketing algoritmico e dei grandi modelli di pubblico?
Ormai sappiamo bene che la cosa più importante che possiamo fare è costruire relazioni. Più siamo rilevanti verso le nostre persone di riferimento, più rilevanti saremo anche per l’algoritmo. Non c’è una vera discrepanza in realtà tra le cose; in realtà Google non fa altro che farci vedere ciò che preferiamo.
È facilissimo trovarsi in situazioni di utilizzo degli assistenti generativi per produrre alla svelta e con poco sforzo messaggi e contenuti di una campagna. Sono strumenti dall’output stereotipato, privi di originalità, non parliamo di empatia o consapevolezza. Come si può lavorare efficacemente sulle emozioni utilizzando come strumento di produzione l’assistente generativo?
Gli strumenti di intelligenza artificiale sono un progresso importante, nel senso che imparare a utilizzarli bene oppure non farlo, oggi, costituisce uno spartiacque. L’intelligenza artificiale è capace di ridurre il nostro tempo di lavoro e può aiutarci molto soprattutto sulle questioni di quantità.
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È un buon alleato, ma solamente se abbiamo chiare le idee su quello che ci serve e dove vogliamo arrivare. Non c’è una intelligenza artificiale a cui chiediamo di produrre il marketing al nostro posto; il chatbot può può proporci diecimila titoli differenti per un evento, ma senza la nostra capacità di interpretare le possibilità dello strumento in funzione del nostro obiettivo, non andiamo molto oltre.
Marketing emozionale e neuromarketing sono rivali o parenti?
Direi che sono parenti. Il marketing è stato storicamente diviso in tanti filoni e però alla fine rimane sempre marketing; quello che fa la differenza è il punto di vista. Il neuromarketing parte legittimamente da un approccio scientifico, mentre il marketing emozionale lavora su quello che ci fa entrare in sintonia con il pubblico e ci permette di stabilire una relazione profonda ed empatica.
È possibile effettuare il retrofit emozionale di un brand nato senza relazioni con il pubblico né ambizioni di volerne avere?
Sì, è possibile, anche in una azienda dove il problema non si è mai posto e manca del tutto una cultura sul tema, ma alla fine dipende dalle persone. Sono le persone che fanno i brand; se ci si crede, se l’obiettivo è sentito, sì, altrimenti sulla è possibile.
Facevo riviste di informatica personale e l’editore mi disse che avevo troppo a cuore il singolo lettore; dovevo guardare più alla foresta e meno agli alberi. Nel creare una relazione di emozioni tra brand e cliente, quanto si può scendere sull’individuale e intanto lavorare su grandi numeri?
Il marketing emozionale è per sua natura il più possibile orientato sul rapporto il più possibile individuale con le persone. Possono nascere tensioni e distonie se c’è una forte discrepanza tra le risorse a disposizione e il pubblico da servire; se ho una persona a fare customer care per occuparsi di centomila clienti, la relazione tra brand e cliente per forza ne soffrirà.
Il marketing emozionale punta per sua natura alla qualità dell’approccio e alla pienezza della relazione, punta ad arrivare a parlare con tutti, magari con un po’ di pazienza, e arrivare ad avere un pubblico fortemente affiliato.
Succede che le aziende facciano emotion-washing?
Guarda, a oggi non mi è capitato, ma succederà, perch<è è il momento dell’emotional marketing. Quando qualcosa diventa un trend, è inevitabile che venga cavalcato da qualcuno senza una vera intenzione. Probabilmente accadrà, insomma, ma è una cosa normale e non c’è da preoccuparsi. Come cambia l’azienda al suo interno se il marketing dei suoi prodotti punta sulle emozioni e sullo stabilire una relazione emotiva? Il supporto clienti, per esempio, deve rivedere i propri script?
L’azienda cambia eccome, perché c’è un investimento diverso in termini di ascolto delle voci all’esterno. L’effort non consiste più nell’urlare, ma nell’accordare una melodia. È anche il momento dove finalmente l’azienda si accorge che il marketing non è una spesa ma un investimento.
In quali situazioni un approccio emozionale al marketing potrebbe risultare controproducente? Ne possiamo ipotizzare o è un approccio teoricamente sempre vincente se applicato con cura?
Molto semplice: un approccio emozionale al marketing è sicuramente vincente se viene praticato con cura e soprattutto se ci si crede, non fideisticamente ma traducendo nella pratica quotidiana quello che abbiamo dentro. Deve essere proprio una cosa che sento e che ha ricadute concrete e coerenti: non posso sottopagare i dipendenti e pretendere di fare marketing emozionale.
Siamo marketer della vecchia scuola, orientati al prodotto più che alle persone, abituati a pensare davanti a Excel, vediamo il cliente come una massa che compra. Dobbiamo convertirci all’emotional marketing e acquisire una nuova visione del nostro lavoro. Oltre a leggere il tuo libro, che cosa facciamo?
Leggiamo, ascoltiamo musica, passeggiamo, pratichiamo yoga, riconnettiamoci con ciò che muove la nostra mente e nutre la nostra curiosità. L’attività specifica non conta; invece, vogliamo sentire il coinvolgimento vero nei confronti del cliente e costruire relazioni ricche. Il marketing emozionale alla fine è costruire relazioni di qualità.
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