“L’utente tipico non è più il giovane maschio bianco con laurea e un sacco di soldi. Oggi la popolazione di Internet è più simile a quella dell’America.” Così Lee Rainie, direttore del Pew Internet & American Life Project a margine di un sondaggio sullo stato di salute dell’e-government a stelle e strisce. Dove si enuncia che il numero dei cittadini alla ricerca di informazioni sugli innumerevoli siti web governativi negli ultimi due anni è cresciuto di parecchio: il 70 per cento, pari a 68 milioni di persone. Evento in buona parte dovuto, appunto, alla diffusione dell’accesso a Internet un po’ in ogni fascia sociale. Ma secondo alcuni esperti si tratta di un risultato del tutto superficiale, scarsamente indicativo della validità dei contenuti offerti o di un’efficace usabilità dei siti stessi. Mentre altre fonti non nascondono il fatto che l’attuale interazione online della pubblica amministrazione sembra spingere i cittadini al tipico approccio consumista piuttosto che verso la partecipazione alla res publica. Senza poi dimenticare la volontà di Bush nel tenere segrete e rimuovere materiale sensitivo a difesa del ‘processo deliberativo’ oppure sulla scia di possibili attacchi terroristi. Ennesimo scenario contrastante del mondo online, che proprio gli attuali venti di guerra rischiano di trascinare ulteriormente nel dimenticatoio.
Questi i dati salienti della recente indagine curata dal Pew Internet & American Life Project: il 53 per cento di quanti hanno visitato siti governativi sono di genere maschile; il 49 per cento è compreso tra i 30 e i 49 anni; il 77 per cento è alla ricerca di materiali d’interesse turistico e il 21 per cento di informazioni sulle lotterie nazionali. Maggiormente visitati sono i siti federali e poi quelli dei singoli stati, con il 76 per cento degli interpellati che li classifica “ottimi o buoni.” Invece poco più del 40 per cento s’interessa degli spazi online messi su dalle municipalità locali. Il 52 per cento dichiara di avere un titolo di studio inferiore al college, al contrario del restante 48 per cento (per lo più con una laurea alle spalle). Condotto a gennaio su un campione di 2.400 utenti, il sondaggio rivela inoltre che questi ultimi, dopo il turismo, curiosano tra la pubblica amministrazione in Internet per completare ricerche scolastiche o prelevare formulari vari. (Risparmiando tempo e denaro).
Per quanto incoraggiante rispetto a dati precedenti, questi non riescono però a soddisfare i palati più esigenti. Ovvero: è del tutto naturale che nell’epoca digitale i cittadini ricorrano a Internet per usufruire al meglio dei servizi pubblici e superare le solite pastoie burocratiche. Ma è davvero tutto qui? Pare di sì, come confermerebbe ad esempio un’altra ricerca dell’autunno scorso. Appena il 16 per cento dei contribuenti affermava di aver compilato la dichiarazione dei redditi sul web, e ancor più basso (12 per cento) il numero di quanti avevano fatto lo stesso per una procedura infinitamente più semplice, il rinnovo della registrazione annuale per l’automobile. Una situazione che rivela altresì la scarsa mancanza di infrastruttura alla base delle funzionalità dell’odierno e-government. Spiega Gary Bass, portavoce dell’Office of Management and Budget Watch, coalizione che monitora le attività governative: “Mi chiedo se questo e-government possa fornire un serio accesso alle informazioni. Ovvio che sia positivo rinnovare le licenze online, ma non è possibile reperire dati incrociati su una società, né sembra esistere un’infrastruttura che colleghi tra loro le varie agenzie.” Non a caso giace al Senato una proposta di legge dell’ex-candidato alla vicepresidenza Joseph Lieberman, che innalza il livello di usabilità dei siti federali e garantisce database di collegamento diretto tra i vari dipartimenti.
Un quadro che suggerisce la necessità, quantomeno implicita, sia da parte di e-citizen che di varie organizzazioni verso un netto incremento nella disponibilità di materiali e servizi governativi sul web. Eppure in tal senso le posizioni appaiono tutt’altro che ottimiste. Questa l’opinione di Ari Schwartz, condirettore del Center for Democracy and Technology, una delle associazione dedite alla difesa delle libertà costituzionali nell’ambito digitale: “Fin dall’inizio l’amministrazione Bush aveva annunciato di voler tener segrete un maggior numero di informazioni, soprattutto nella fase del processo deliberativo. Abbiamo visto cosa è successo con il caso Enron, e ora abbiamo la paura causata dal terrorismo. Parte di tale segretezza è legittima, ma in parte si tratta di reazioni eccessive.” Alcune recenti polemiche avevano infatti riguardato la decisione di eliminare dal web materiali ritenuti ‘sensibili,’ come le mappe delle centrali nucleari o la dislocazione di edifici e complessi chiave. Senza dimenticare l’esplicito abbandono delle policy in tema di digital divide, già annunciate e praticate ancor prima dell’11 settembre. In altri termini, essendo ormai Internet divenuto uno dei tanti beni di consumo del cittadino medio, tanto vale concentrarsi su e-commerce e poco più.
In calce al tutto rimane infatti questo il rischio più serio. Passato anche il boom dell’e-government, rimane la scontatezza dei siti-vetrina e qualche servizio utile. E come per le tanto declamate elezioni elettroniche all’indomani degli impicci per sempre irrisolti nelle presidenziali del novembre 2000, restano tutte da vedere — e soprattutto da sperimentare — le potenzialità di Internet verso l’incremento della partecipazione popolare alla vita pubblica. Un ambito in cui a dire il vero di recente si è registrata qualche istanza promettente: oltre 30.000 email inviate alla Federal Trade Commission sulle possibili norme relative al telemarketing, centinaia di migliaia quelle con commenti sulle future regolamentazioni bancarie. Ma è ben poca cosa rispetto alle promesse di appena qualche anno fa, ancor peggio se viste alla luce delle attuali scelte politiche (non certo semplici dimenticanze) scarsamente a tutela e a favore degli e-citizen.