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Dio salvi il Principe e anche un po’ la tv

24 Febbraio 2010

Dio salvi il Principe e anche un po’ la tv

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La televisione generalista tenta il suicidio. Ma il piccolo schermo è poi davvero così male?

Le avvisaglie dei primi disordini si erano avvertite già qualche giorno prima. Mugugni, qualche dichiarazione appena sopra le righe, commenti a volte taglienti ma niente di davvero grave. Tuttavia la sensazione era di una preoccupante tensione che montava. Poi, pochi minuti prima della mezzanotte del 20 febbraio, è scoppiato un vero e proprio ammutinamento. La protesta è cresciuta fino a diventare guerriglia. Gli orchestrali, appallottolati gli spartiti di canzoni come Malamorenò e Italia amore mio hanno aggredito il palco del Teatro Ariston di Sanremo (Imperia) tra lo sgomento del polposo comandante in capo, la signora Antonella Clerici. Causa della protesta la squalifica di artisti come Malika Ayane e Simone Cristicchi (autore del brillante refrain sarkonò, sarkosì).

Per alcuni lettori la comprensione della drammatica cronaca potrà risultare ostica essendo immuni al fascino del Festival della Canzone Italiana. La difficoltà è data dal fatto che in quel momento stavano facendo altro. Chi raschiava da Facebook un’altra manciata di fan o amici, chi aggiornava il proprio profilo Twitter o i post del proprio blog, chi spazzolava gli Rss non ancora letti o si godeva la prima e la seconda puntata della nuova serie di Lost, in lingua originale, nel suo personalissimo cinema Vlc. O semplicemente faceva zapping nel ”bouquet” Sky, Mediaset Premium o nell’ampia offerta del digitale terrestre. O, naturalmente, si appisolavano in compagnia del proverbiale buon libro. Insomma, noi non c’eravamo.

Aggregatore di massa

Sanremo insieme alle partite della nazionale di calcio è considerato l’ultimo aggregatore sociale di massa del nostro paese. Per aggregatore sociale intendo quell’evento periodico e non inaspettato che, soprattutto il giorno dopo, riempie la giornata di disquisizioni, pensieri e cosmogonie con le quali ci si confronta con i colleghi di lavoro, gli amici, la famiglia. Nel quotidiano lavoro di ridefinizione del nostro posto in questa esistenza abbiamo bisogno di unità di misura, metri di paragone. Abbiamo bisogno di idee comuni sulle quali confrontarci, includerci ed escluderci, dichiararci d’accordo o contrari.

Per una cinquantina d’anni la televisione (quella di massa, quella broadcast, la nazional-popolare) ha svolto egregiamente questo compito. Intere generazioni si sono confrontate con la Freccia Nera o Furia cavallo del west, hanno forgiato, riconosciuto, ripensato al propria ”Weltanschauung” sul paninaro di Enzo Braschi, il giubbotto di Fonzie, i seni di Carmen Russo, il pozzo di Vermicino, le sigle di Mal dei Primitives, lo Zecchino d’Oro, il telegiornale delle otto. Persino chi rifiuta con sprezzo la televisione è definito (in parte, naturalmente) dal suo rapporto con essa. Gli autoesiliati dal piccolo schermo si vantano di esserne sprovvisti citando con impressionante precisione la data dalla quale hanno cominciato a privarsene. Proprio come gli ex alcoolisti.

L’inizio della fine

Siamo all’inizio della fine di quel mondo. La mattina dopo, in ufficio, è molto probabile che le discussioni siano troncate di frequente da “non l’ho visto”, “quella serie non la seguo”, “non l’ho ancora scaricato”, “ma tu lo segui in inglese?”. Ora per ogni discussione è necessario prima di tutto definire il contesto, assicurarsi che il nostro interlocutore abbia visto lo stesso nostro intrattenimento per poter intavolare un confronto che duri più di due frasi. L’offerta è ormai talmente alta che gli estimatori che hanno visto la stessa puntata della stessa stagione di Lost si riconoscono come gli appartenenti a una comunità sotterranea e ristretta. Tranne che poi bisogna interrompere il gioioso incontro per via del collega che sta ad una puntata di distanza e che non vuole sentire anticipazioni. La tv generalista invece la guardavano più o meno tutti e Mike Bongiorno, Canzonissima, Giochi Senza Frontiere erano il retaggio comune.

Ci si rende conto di un certo valore del conformismo proprio quando sta per terminare. Quegli elementi di cultura comune che ci rendono simili e dunque confrontabili. Il conformismo ci aiuta a definirci, per similitudine o per differenza. Il valore sta proprio nel fatto che questi elementi fanno parte di noi nostro malgrado. Non li abbiamo scelti. E di essere condivisi anche con chi è molto diverso da noi. È una cultura che ci viene imposta come il battesimo, l’impronta genetica, la patria o i genitori che ci si ritrova. Una eredità con la quale fare i conti a volte in modo conflittuale. Esistiamo anche perché condividiamo cose che non amiamo, cose che non possiamo scegliere, e perché ci confrontiamo con quelli che riteniamo abbiano torto, che poco si sopportano, con i quali è difficile comunicare.

Come isole

Se non condividiamo più niente con chi ci è lontano allora il rischio è quello di cancellare tutte le opportunità di contatto. Chiusi nel nostro personale stream di Torrent o nel selezionatissimo flusso di RSS si parla solo più con i propri simili. E in questi casi, si sa, si finisce per darsi sempre ragione. Se il poeta inglese rinascimentale John Donne scriveva “Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso” forse dovremo cominciare a pensare di vivere come isole.

La rete che ci ha permesso di ampliare gli orizzonti sta anche sfaldando i banali elementi comuni. L’infinita offerta di intrattenimento e di cultura ci sta sezionando in fettine sempre più piccole di popolazione sparsa. E le persone con le quali già avevamo poco a che spartire stanno scomparendo nel segreto dei loro appartamenti. È una sorta di digital divide trasversale per cui la tecnologia non è solo causa della divisione ma anche effetto. E così i residui di quella che era stata la civiltà dell’intrattenimento, che aveva contribuito a costruire la nostra cultura comune, devono gridare sempre più forte per farsi sentire, per emergere dall’infinito ronzio degli infiniti canali di offerta culturale.

Elemosinando attenzione

Una spettacolarizzazione sempre più spinta che cerca di racimolare attenzione. E quella che era stata una onesta e autorevole gara canora del paese del bel canto si è trasformata poco a poco in un evento, una sorta di rappresentazione con principe, patria e famiglia che si agitano sul palco della canzonetta. Stesso destino del Grande Fratello che, esaurita la sua funzione di gioco a premi, si autopromuove infilando nel recinto ogni sorta di variazione sessuale per titillare con un po’ di scandalo il nostro cattolicissimo paese. Solo perché all’indomani qualcuno spenda due parole con il vicino chiedendosi con accorata angoscia: che faccia avrà il trans della Casa?

Sabato notte l’ultimo baluardo dell’audience (se si esclude l’immortale calcio) tenta persino il suicidio in diretta pur di far parlare di sé nella speranza ormai vana di continuare a essere la colla che sta sotto a questo puzzle complicato che è la nostra esistenza contemporanea. Mentre noi, ognuno nella propria isola, ascoltava da lontano quei flebili rumori di guerra aspettando che prima o poi qualcuno che non conosciamo ne pubblicasse un pezzetto su YouTube.

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