Nei mesi trascorsi dal suicidio di Aaron Swartz ho dedicato del tempo a raccogliere materiale che mi aiutasse a riflettere su un insieme di temi davvero radicalmente nuovi, e che diventano col tempo sempre più importanti.
Mi riferisco al racconto della nostra esistenza online, a come questo racconto viene costruito e mantenuto, alla permanenza – o impermanenza – delle nostre storie e delle nostre vite in rete, al modo in cui è possibile dedicarsi a ricostruzioni biografiche e autobiografiche, alla proprietà dei contenuti che creiamo e condividiamo, alla conservazione della nostra presenza online e alle caratteristiche che deve avere la rete per rendere possibile che tutto questo accada. Scrive Craig Mod:
Non posso fare a meno di riconoscere nel nostro collezionare dati un elemento di autopreservazione. Una preservazione che è insita in profondità nei nostri check-in, nelle foto che scattiamo al cibo, nel modo in cui teniamo il conto dei nostri passi, nella mappatura dei percorsi che facciamo quando andiamo a correre. Stiamo collezionando come mai prima d’ora.
Non si tratta soltanto dei nostri profili sui social network – attivi e abbandonati – o di quello che scriviamo sui nostri blog, delle foto scattate e condivise. Si tratta anche della scrittura di sé, dall’autobiografia costante che è resa possibile dal quantified self. Tenere un registro degli spostamenti, delle ore di sonno e di veglia, delle telefonate ricevute, delle email inviate, dei luoghi in cui siamo stati, per quanto tempo, in quali giorni e con chi. Si tratta anche di attività minori – i like su Facebook, i repin su Pinterest, l’aver autorizzato una tale applicazione utilizzando il nostro profilo Twitter: tutto contribuisce a raccontare di noi.
La collezione di dati che siamo in grado di generare è abbastanza grande da permettere di ricavare strutture, pattern e regolarità, con tutto quello che ne consegue: la scomparsa dell’incertezza e dell’indeterminazione, ad esempio, la necessità di mettere a disposizione un’identità pubblica leggibile e coerente nel tempo, il fatto che sia di fatto impossibile avere diritto all’oblio, e per contro che cosa resta delle nostre tracce anonime, quelle non riconducibili a noi.
Quello che possiamo dire con certezza – ad ora – è che qualunque preservazione della nostra esistenza online è legata alle decisioni, alle politiche e alla volontà delle compagnie a cui ci affidiamo quotidianamente e che rendono possibile questa stessa esistenza: le compagnie che custodiscono i nostri dati e i nostri contenuti, e che sono nella condizione di influenzare la loro permanenza, di garantire o meno l’accesso ad altri, una volta scomparsi noi.
Qualunque racconto di ciò che siamo, di ciò che siamo stati e che saremo è possibile solo all’interno di una rete costruita, mantenuta e sviluppata in modo da mettere al centro e rispettare una dimensione umana, oltre che tecnologica e economica. La stessa rete aperta, conoscibile e neutrale per cui Aaron Swartz lavorava, e che consente di mantenere la sua memoria.