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Da Aaron Swartz alle nostre collezioni di dati

30 Agosto 2013

Da Aaron Swartz alle nostre collezioni di dati

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La rete acquisisce tanto più senso quanto più rispetta una dimensione umana, dove contano la memoria e le idee.

Nei mesi trascorsi dal suicidio di Aaron Swartz ho dedicato del tempo a raccogliere materiale che mi aiutasse a riflettere su un insieme di temi davvero radicalmente nuovi, e che diventano col tempo sempre più importanti.

Mi riferisco al racconto della nostra esistenza online, a come questo racconto viene costruito e mantenuto, alla permanenza – o impermanenza – delle nostre storie e delle nostre vite in rete, al modo in cui è possibile dedicarsi a ricostruzioni biografiche e autobiografiche, alla proprietà dei contenuti che creiamo e condividiamo, alla conservazione della nostra presenza online e alle caratteristiche che deve avere la rete per rendere possibile che tutto questo accada. Scrive Craig Mod:

Non posso fare a meno di riconoscere nel nostro collezionare dati un elemento di autopreservazione. Una preservazione che è insita in profondità nei nostri check-in, nelle foto che scattiamo al cibo, nel modo in cui teniamo il conto dei nostri passi, nella mappatura dei percorsi che facciamo quando andiamo a correre. Stiamo collezionando come mai prima d’ora.

Non si tratta soltanto dei nostri profili sui social network – attivi e abbandonati – o di quello che scriviamo sui nostri blog, delle foto scattate e condivise. Si tratta anche della scrittura di sé, dall’autobiografia costante che è resa possibile dal quantified self. Tenere un registro degli spostamenti, delle ore di sonno e di veglia, delle telefonate ricevute, delle email inviate, dei luoghi in cui siamo stati, per quanto tempo, in quali giorni e con chi. Si tratta anche di attività minori – i like su Facebook, i repin su Pinterest, l’aver autorizzato una tale applicazione utilizzando il nostro profilo Twitter: tutto contribuisce a raccontare di noi.

La collezione di dati che siamo in grado di generare è abbastanza grande da permettere di ricavare strutture, pattern e regolarità, con tutto quello che ne consegue: la scomparsa dell’incertezza e dell’indeterminazione, ad esempio, la necessità di mettere a disposizione un’identità pubblica leggibile e coerente nel tempo, il fatto che sia di fatto impossibile avere diritto all’oblio, e per contro che cosa resta delle nostre tracce anonime, quelle non riconducibili a noi.

Quello che possiamo dire con certezza – ad ora – è che qualunque preservazione della nostra esistenza online è legata alle decisioni, alle politiche e alla volontà delle compagnie a cui ci affidiamo quotidianamente e che rendono possibile questa stessa esistenza: le compagnie che custodiscono i nostri dati e i nostri contenuti, e che sono nella condizione di influenzare la loro permanenza, di garantire o meno l’accesso ad altri, una volta scomparsi noi.

Qualunque racconto di ciò che siamo, di ciò che siamo stati e che saremo è possibile solo all’interno di una rete costruita, mantenuta e sviluppata in modo da mettere al centro e rispettare una dimensione umana, oltre che tecnologica e economica. La stessa rete aperta, conoscibile e neutrale per cui Aaron Swartz lavorava, e che consente di mantenere la sua memoria.

L'autore

  • Ivan Rachieli
    Ivan Rachieli, 30 anni, laurea in letteratura russa, master in editoria. Ha lavorato in GeMS con gli ebook, e in ZephirWorks con le applicazioni web. Un giorno mollerà tutto e se ne andrà sul lago Bajkal, per dedicarsi finalmente alle cose serie, come ad esempio la caccia col falcone. Se avete voglia di conoscerlo meglio, potete fare due chiacchiere con lui su Twitter @iscarlets o leggere il suo blog.

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