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California, la catastrofe che non c’è mai stata

29 Settembre 2010

California, la catastrofe che non c’è mai stata

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Un terremoto distruttivo, uno tsunami, l'esplosione di un oleodotto e altri disastri ambientali. L'allarme si propaga attraverso i social media, coinvolgendo reti di soccorso e testimonianze diffuse. Ma è solo un'esercitazione

Venerdì 24 settembre 2010 ore 6:10 pm nel flusso dei tweet ne compare uno di CNNtech con scritto: «Happening now! Tsunami, earthquake drill on Twitter, FB», che era stato preceduto pochi minuti prima da uno che raccontava: «If you see #X24 tweets today about a major earthquake in California, don’t panic: it’s a disaster-prep drill». In pratica: non vi spaventate: l’esercitazione passa dal web!

La centralità dei siti di social network nella nostra vita informativa, organizzativa ed emotiva è riconosciuta oramai anche da chi si occupa di previsione e controllo dei comportamenti sociali, oltre che di dinamiche organizzative si soccorso, a fronte di eventi catastrofici. Il laboratorio di Immersive Visualization Center della San Diego State University, in collaborazione con i consulenti BuzzMgr, ha testato il 24 e 25 settembre 2010 la capacità e le forme di reazione di utenti e organizzazioni (come le Nazioni Unite) di 15 paesi su Facebook e Twitter lanciando l’esercitazione Exercise 24 (hashtag #X24): la simulazione di un terremoto di grande magnitudo che colpisce la California del Sud estendendosi al Messico, provocando uno tsunami, l’esplosione di un oleodotto e altri disastri ambientali. Lo scopo della diffusione comunicativa attraverso i social media del falso terremoto è stata realizzata per testare la capacità di reazione di organizzazioni ed utenti, misurando la velocità del diffondersi delle notizie e il grado di “copertura” mediale potenziale.

Tempi di risposta

L’idea  su cui si fonda questa sperimentazione parte dalla trasformazione che abbiamo potuto osservare durante le azioni di soccorso del terremoto di Haiti o nelle azioni di supporto all’allarme ambientale causato dalla perdita di petrolio nel Golfo del Messico: abbiamo infatti assistito all’utilizzo significativo e sempre più centrale di strumenti di comunicazione e social networking che sono a bassissimo costo o addirittura pubblici e gratuiti a supporto di crisi dovute a catastrofi naturali. Si è trattato quindi di cercare di cogliere le effettive potenzialità e capacità di questi strumenti per la comunicazione, la logistica, il coordinamento di azioni, ecc. valutando i tempi di risposta e le capacità di garantire processi collaborativi in forme istantanee e delocalizzate. E non solo da parte di soggetti pubblici e istituzionali che sono solitamente chiamati in causa di fronte a queste tragedie, ma coinvolgendo piuttosto anche i cittadini della rete e le organizzazioni no profit locali che hanno potuto partecipare grazie a delle regole di ingaggio fornite via web.

L’azione sui social network è stata organizzata e monitorata attraverso un account dedicato su Twitter (in cui si può seguire la preparazione dell’esercitazione nei suoi vari step a partire dall’11 febbraio) e con una pagina su Facebook che hanno permesso di seguire il finto evento e la sua evoluzione attraverso status update preceduti dalla dicitura «TEST: Not Real/ ES UN SIMULACRO» in cui abbiamo letto il dramma del terremoto «CNN.com Earthquake strikes coast of Southern and Baja California»), l’arrivo dello tsunami («TV said large wave headed toward coastline! Everyone get out!»), i processi di soccorso («The California National Guard is monitoring the situation and is ready to respond should orders come the Governor.»), il succedersi delle vittime («Buildings collapsing, students hurt @local high school! Help!»).

Informazione connessa

Ci troviamo qui all’interno di un intreccio tra diverse forme di comunicazione che la rete e le sue declinazioni in forme “connesse” permettono. I cittadini possono attivarsi come informatori localizzati con una capacità di reazione e di precisione informativa superiore a quella che attori istituzionali (dai media alle pubbliche amministrazioni) possono avere. Soprattutto quando si tratta di eventi improvvisi come i disastri naturali che coinvolgono milioni di persone, le organizzazioni governative e il sistema dei media. Gli accadimenti imprevedibili rompono la routine informativa e di intrattenimento e accrescono il bisogno di una informazione connessa.

Eric Frost, direttore del VizLab dell’Università di San Diego ha affermato: «Abbiamo un sacco di cittadini che diventano i nostri occhi su un evento. È possibile ottenere dalla gente relazioni non solo su cose come un incendio, ma anche incidenti dovuti al traffico o se Mrs. Smith è ancora a casa convalescente. La gente si prende cura della propria comunità, piuttosto che aspettare che sia il governo a fare tutto. Questo è citizen journalism». Non ritengo che qui si tratti di un caso da catalogare sotto il “citizen journalism” ma, piuttosto, di “cittadinanza connessa”, cioè del prendere forma di  una relazione diretta e interrelata fra media/istituzioni/cittadini al servizio delle comunità territoriali. Il valore di un tweet o di un re-tweet su quanto sta accadendo in casi come questo ha a che fare non con un valore puramente informativo ma si lega immediatamente alle forme di azione ed organizzazione.

Connettori

Oltre a raccontare che cosa accade vengono messi in circolo informazioni sui comportamenti da tenere, ad esempio da parte di reparti della protezione civile, che istantaneamente possono coprire, di re-tweet in re-tweet grazie alla diffusione dei cittadini utenti dei social network, un’ampia e articolata parte della popolazione connessa e mobile sul territorio. Significativa è, ad esempio, l’attenzione che l’esercitazione ha posto sugli strumenti mobile. I cittadini possono poi diventare connettori straordinari per fornire un surplus micro-informativo («mi trovo in questo luogo e vedo questi danni alle strutture, alle strade e segnalo questi pericoli che percepisco»), utile a chi organizza soccorsi e interventi a partire da strutture centralizzate che devono mobilitarsi su territori specifici potendo contare su una visione che non dipende unicamente da canali comunicativi ufficiali, ma dallo sguardo diffuso e raccontato in tempo reale – pensiamo all’utilità che le informazioni via social network hanno avuto per affrontare gli incendi nella California – che può essere organizzato tramite sistemi di visualizzazione e mappatura online.

Un secondo versante che mi sembra necessario sottolineare ha a che fare con la sperimentazione in momento di crisi di sistemi di comunicazione e videoconferenza come Ustream tv, VSee, Skype e GlobalTalk usati raggiungere, organizzare e mettere in connessione rapidamente esperti sparsi nel mondo e di sistemi come Sahana, Open Street Map e InRelief.org per una valutazione dei danni in tempo reale. Molto spesso si tratta di sistemi open source per connettere, comunicare, monitorare, visualizzare, condividere, organizzare, ecc., molti dei quali scaricabili come applicazioni negli smart phone, per garantire connessione in mobilità. Il fatto che le istituzioni si aprano a forme di condivisione in pubblico delle informazioni e che traggano proprio dal pubblico elementi informativi capaci di costruire la loro visione, usando quegli stessi canali che quotidianamente frequentiamo per orientarci nella nostra routine, mostra come sia possibile trovare punti di contatto strategici tra le forme che abbiamo costruito nell’abitare la rete e modi di essere cittadini nei luoghi reali.

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