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Cultura Libera

14 Dicembre 2004

Cultura Libera

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Vi proponiamo oggi, in anteprima assoluta, la lettura della prefazione al libro "Cultura Libera: come i grandi media usano la tecnologia e la legge per bloccare la cultura e controllare la creatività", di Lawrence Lessig, in uscita a Gennaio 2005

Al termine della recensione del mio primo libro Code: And Other Laws of Cyberspace, David Pogue, brillante autore di innumerevoli testi tecnici e informatici, così scriveva:

Contrariamente alla legge reale, il software di Internet non ha alcuna capacità punitiva. Non riguarda chi non è online (e lo è soltanto una ristretta minoranza della popolazione mondiale). E se non ci piace il sistema di Internet, possiamo sempre buttar via il modem.

Pogue si mostrava scettico rispetto alla tesi centrale del libro – che il software, o “codice”, funzionasse come una specie di legge – e la sua recensione suggeriva la felice idea che, nel caso la vita del cyberspazio diventasse difficile, avremmo sempre potuto recitare una formula magica – ­ ossia semplicemente girare l’interruttore e tornarcene a casa. Spegniamo il modem, stacchiamo il computer, e qualsiasi problema esista in quello spazio non ci “riguarderà” più.

Pogue poteva aver ragione nel 1999 – ne dubito, ma forse era così. Ma anche se aveva ragione allora, ora è diverso: Cultura Libera affronta i problemi provocati da Internet anche una volta spento il modem. È una discussione su come le battaglie che oggi infuriano a proposito della vita online interessino in maniera fondamentale anche “chi non è online”. Non esiste nessun interruttore in grado di isolarci dall’effetto di Internet.

Ma, contrariamente a Code, qui la discussione non verte su Internet in se stessa. Concerne invece le conseguenze che essa ha su una parte della nostra tradizione, cosa assai più cruciale e, per quanto possa essere difficile da ammettere per i fanatici della tecnologia, molto più importante.

Tale tradizione riguarda il modo in cui viene creata la nostra cultura. Come illustro nelle pagine che seguono, noi proveniamo da una tradizione di “cultura libera” – in cui il concetto di libertà è lo stesso che in “libertà d’espressione, libero mercato, libero commercio, libertà di impresa, libera volontà e libere elezioni”.
Una cultura libera sostiene e tutela i creatori e gli innovatori. Lo fa in modo diretto garantendo i diritti di proprietà intellettuale. Ma lo fa anche in maniera indiretta limitando la portata di tali diritti, allo scopo di garantire che creatori e innovatori successivi rimangano quanto più liberi possibili dal controllo del passato. Una cultura libera non è una cultura in cui non esiste la proprietà, proprio come il libero mercato non è un mercato in cui tutti i beni sono gratuiti. L’opposto di una cultura libera è una “cultura del permesso” – una cultura in cui i creatori possono creare soltanto con il permesso dei potenti, o dei creatori del passato.

Se comprendiamo questo mutamento, credo che vi opporremo resistenza. Non “noi” della Sinistra o “voi” della Destra, ma noi che non abbiamo alcun interesse economico in quelle specifiche industrie culturali che hanno caratterizzato il XX secolo. Che siate di Destra o di Sinistra, o indifferenti al problema, la storia che racconto in queste pagine vi farà riflettere. Perché i cambiamenti che mi accingo a descrivere riguardano valori considerati fondamentali da entrambe le posizioni della nostra cultura politica.

Negli Stati Uniti, abbiamo osservato uno scorcio di questo oltraggio “bipartisan” all’inizio dell’estate 2003. Mentre la Federal Communications Commission (FCC) prendeva in esame alcuni cambiamenti alle norme sulla proprietà dei media, che avrebbero ridotto i limiti posti alla concentrazione delle testate, una coalizione straordinaria produsse oltre 700.000 lettere indirizzate alla FCC che si opponevano a tali cambiamenti. Mentre William Safire descriveva la “scomoda marcia assieme a CodePink Women for Peace e alla National Rifle Association, tra la liberal Olympia Snowe e il conservatore Ted Stevens”, spiegava forse nel modo più semplice quale fosse la posta in gioco: la concentrazione del potere. E mentre chiedeva,

Tutto questo sembra forse anti-conservatore? Non per me. La concentrazione del potere – della politica, delle imprese, dei media, della cultura – dovrebbe essere una maledizione per i conservatori. Il decentramento del potere tramite il controllo locale, per incoraggiare la partecipazione individuale, è l’essenza del federalismo e la più alta espressione della democrazia.

Quest’idea è uno degli elementi a sostegno della tesi esposta in Cultura Libera, anche se il mio interesse non si focalizza soltanto sulla concentrazione del potere prodotto dalla concentrazione della proprietà ma, fatto ancora più importante perché meno visibile, sulla concentrazione del potere prodotta da un mutamento radicale degli obiettivi sostanziali della legge. La legge sta cambiando; questo cambiamento altera il modo in cui si costruisce la nostra cultura; tale cambiamento dovrebbe preoccuparci – che ci stia o meno a cuore Internet, e che ci si ponga a destra o a sinistra di Safire.

L’ispirazione per il titolo e per gran parte delle idee sostenute in questo volume deriva dal lavoro di Richard Stallman e della Free Software Foundation. Anzi, nel rileggere le opere di Stallman, soprattutto i saggi di Software libero, pensiero libero, mi sono accorto di come tutte le analisi teoriche da me sviluppate qui siano riflessioni che Stallman aveva presentato qualche decennio fa. Si potrebbe sostenere perciò che questo sia un lavoro “meramente” derivato.

Accetto questa critica, se poi è una critica. Il lavoro di un avvocato è sempre derivato, e in questo libro non intendo fare altro che rammentare a una cultura quella tradizione che le è sempre stata propria. Al pari di Stallman, difendo quella tradizione sulla base dei valori che ha espresso. Come Stallman, ritengo che siano i valori della libertà. E come Stallman, credo che siano i valori del passato da tutelare nel futuro. La cultura libera è il nostro passato, ma sarà il nostro futuro soltanto se riusciremo a cambiare la strada che stiamo percorrendo ora.

Analogamente alle posizioni di Stallman sul software libero, la tesi a sostegno della cultura libera inciampa su un malinteso difficile da evitare, e ancora più difficile da comprendere. Una cultura libera non è priva di proprietà; non è una cultura in cui gli artisti non vengono ricompensati. Una cultura senza proprietà, in cui i creatori non ricevono un compenso, è anarchia, non libertà. E io non intendo promuovere l’anarchia.

Al contrario, la cultura libera che difendo in questo libro è in equilibrio tra anarchia e controllo. La cultura libera, al pari del libero mercato, è colma di proprietà. Trabocca di norme sulla proprietà e di contratti che vengono applicati dallo stato. Ma proprio come il libero mercato si corrompe se la proprietà diventa feudale, anche una cultura libera può essere danneggiata dall’estremismo nei diritti di proprietà che la definiscono. Questo è ciò che oggi temo per la nostra cultura. È per oppormi a tale estremismo che ho scritto questo libro.

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