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Gates: l’open source toglie posti di lavoro

21 Luglio 2004

Gates: l’open source toglie posti di lavoro

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Bill Gates accusa l'open source di soffocare il mercato del lavoro per gli informatici e propone il software commerciale come garante della compatibilità. Curiose contraddizioni

“Chi può permettersi di svolgere gratuitamente un lavoro di qualità professionale? Quale hobbista può dedicare 3 anni-uomo alla programmazione, al debug, alla documentazione del prodotto e poi distribuirlo gratis?” — Bill Gates, lettera aperta agli hobbisti, 1976.

“Se non si vogliono creare posti di lavoro o proprietà intellettuale, allora si tende a sviluppare l’open source. Non è una cosa che si fa durante la giornata come lavoro retribuito. Se vuoi darlo via, ci lavori di notte.” — Bill Gates, discorso in Malesia riportato da Asia Computer Weekly, 2004.

Sono passati quasi trent’anni e parecchi fantastilioni, ma l’atteggiamento di fondo non è cambiato. Secondo Bill Gates, chi sviluppa software libero e gratuito è un dilettante che non può concludere granché, perché lo fa nei ritagli di tempo e non lo fa spinto dai soldi. Soltanto una struttura commerciale, dice, può garantire “qualità professionale”. A questo trentennale tema di fondo si aggiunge oggi l’accusa drammatica di minare i posti di lavoro.

Stimolare l’open source, dice adesso Gates, significa anche mettere a rischio l’occupazione: se il software diventa gratuito, non c’è più lavoro per chi si guadagna da vivere scrivendo software a pagamento. Per questo, secondo il multimiliardario del software, i governi non devono cedere alle lusinghe dell’open source: risparmieranno (forse) ora, ma pagheranno il prezzo sotto forma di disoccupazione e fuga di cervelli.

Due ragionamenti che filano perfettamente, almeno in apparenza, e non mancheranno di sedurre imprenditori e governanti. Purtroppo sono entrambi profondamente sbagliati. Non che zio Bill non lo sappia: non è stupido. Deve però preoccuparsi del futuro della propria azienda, per cui dice quel che gli fa comodo. Meglio dunque chiarire, prima che certe dicerie, a furia di essere ripetute, vengano scambiate per realtà.

I soldi non comprano la qualità

Le parole di Gates partono dal presupposto che soltanto la leva del denaro possa incentivare la creatività e la realizzazione di un prodotto di qualità. Dimentica l’altra leva: la passione. Gates dipinge il programmatore come un minatore: un lavoratore che senza l’incentivo del denaro non svolgerebbe un compito ingrato. Forse è così nella sua azienda, ma diversamente dai minatori, molti programmatori si divertono a fare quello che fanno, specialmente se si tratta di realizzare un software che li appassiona. È un appagamento intellettuale che non ha prezzo, come la soddisfazione di finire il cruciverba e potersene pure vantare pubblicando il proprio risultato.

Questa non è teoria: è realtà. La teoria di Gates è demolita dai fatti, in particolare dal caso di Apache. Apache è il software che gestisce oltre due terzi dei server Web di Internet (secondo gli ultimi dati di Netcraft, il 67%). Apache è software libero e gratuito, mantenuto dagli appassionati, che svolgono “gratuitamente un lavoro di qualità professionale”. Talmente professionale che funziona meglio del software analogo di Microsoft, come dimostrato dagli ultimi attacchi informatici ai server Web della Rete, compreso il recentissimo Download.Ject che ha infettato siti commerciali basati su software Microsoft e ha consentito di carpire i dati dei clienti.

Nel caso di Apache, inoltre, non si può neppure addurre l’attenuante del bersaglio più piccolo e quindi meno interessante da attaccare, usata spesso per “spiegare” la mancanza di attacchi ai sistemi Mac e Linux. In questo caso, infatti, il bersaglio piccolo è Microsoft.

Apache non è neppure un caso isolato. Vale la pena di citare i browser alternativi open source, come Firefox e Mozilla, e la suite per ufficio OpenOffice.org. Ed è difficile argomentare che l’incentivo del denaro produce automaticamente software “di qualità professionale”, quando Internet Explorer, costato oltre cento milioni di dollari l’anno (dice Microsoft) e un decennio di lavoro, viene sconsigliato dal CERT, autorevolissima emanazione del Dipartimento della Sicurezza Interna statunitense, in favore di questi browser alternativi.

Anzi, Internet Explorer stesso smentisce le parole di Gates: “Se vuoi darlo via, ci lavori di notte.” E secondo il suo ragionamento, ciò che è “dato via” non può essere di qualità professionale. Ma Gates dà via Internet Explorer. Sembra esserci una leggera contraddizione.

La software house e la lavanderia

La teoria secondo la quale il software open source toglie lavoro agli informatici stipendiati è un vecchio ritornello, rispolverato probabilmente perché le altre argomentazioni stanno facendo acqua sempre più vistosamente, mentre la paura di perdere il posto è tuttora uno spauracchio molto efficace, specialmente di questi tempi.

Molti manager e governanti non riescono a capire perché la teoria di Gates sia sbagliata perché non sono informatici. Ma se spostiamo il concetto a un altro settore tutto diventa molto più chiaro. Quello che dice Gates equivale infatti a sostenere che se tutti avessimo una lavatrice in casa, le lavanderie chiuderebbero.

Dopotutto, se tutti possiamo lavarci i panni in casa (scriverci il software o personalizzare quello esistente), perché mai dovremmo rivolgerci a una lavanderia (a chi scrive software a pagamento)? Semplice: perché non siamo in grado di lavare da soli certi capi difficili o non abbiamo tempo o voglia di farlo.

In altre parole, ci sarà sempre lavoro per lo specialista, per chi offre soluzioni su misura, per chi offre il software come servizio anziché come prodotto. Ci sarà meno lavoro, invece, per chi vuole soltanto realizzare un prodotto, venderne milioni di copie con lautissimi margini di profitto per copia, e tentare di mantenere lo status quo facendo pressioni e propaganda per soffocare i modelli di business alternativi.

Quindi Gates in un certo senso ha ragione quando dice che l’open source toglie posti di lavoro; s’è semplicemente scordato di precisare che toglie posti di lavoro a Microsoft e alle altre società basate sullo stesso modello commerciale. Non ne toglie a chi ha abbracciato un modello diverso.

Vedremo dunque orde di programmatori a spasso? Improbabile: semmai è prevedibile il contrario. La diffusione di strumenti liberi e gratuiti, basati su standard aperti, abbassa la “tassa d’ingresso” nel mercato del lavoro e quindi facilita la creazione di posti di lavoro. Oggi, chi vuole fare assistenza al software proprietario deve prima acquistarlo e pagarne anche gli aggiornamenti e le relative “certificazioni”. Invece chi vuole diventare consulente informatico per l’open source deve soltanto scaricare, installare e studiare. E dimostrare di essere bravo senza ricorrere a certificazioni conquistate a suon di euro.

Inoltre l’economia e il mondo del lavoro vanno considerati nel loro complesso. Nella situazione attuale, una fetta non trascurabile dell’economia mondiale viene spesa in licenze software. Sono soldi che fra l’altro spesso finiscono direttamente all’estero, con una perdita netta per l’economia nazionale. Se invece non è più necessario spendere in licenze, c’è più denaro a disposizione per altri investimenti privati e pubblici: scuole, case, ospedali, pensioni. Un’azienda che non deve acquistare licenze o hardware proprietario può dedicare i fondi risparmiati ad assumere personale. Il livello di competenza informatica nazionale può salire in quanto libero dalle succitate “tasse d’ingresso” e dai vincoli arbitrari imposti da un’azienda straniera.

Garante della compatibilità?

Un’altra delle ragioni di superiorità del modello proprietario dello sviluppo del software proposte da Microsoft riguarda la compatibilità. Nel medesimo discorso in Malesia, Bill Gates ha affermato anche che “[l’open source] non garantisce la compatibilità verso l’alto, né realizza quel tipo di integrazione” che consente al seamless computing, all’informatica senza barriere, di funzionare.

L’affermazione sembra far parte di una nuova strategia del colosso di Redmond, visto che fa il paio con la recente lettera inviata da Microsoft al senatore Fiorello Cortiana per offrirsi come paladina degli standard aperti. Il messaggio complessivo sembra essere, grosso modo, che soltanto la forza economica e la difesa della proprietà intellettuale tipici di una società commerciale possono garantire che i dati scritti oggi saranno leggibili domani o fra vent’anni o con altri dispositivi.

Va ricordato, tuttavia, che proprio Microsoft è la società che ha cambiato ripetutamente i propri formati senza garantirne la compatibilità. Provate, per esempio, a leggere con Word 95 un documento scritto con Word 2000, o un file WMA con un vecchio Windows Media Player. Oltretutto, Microsoft tuttora non divulga i formati binari in cui sono salvati i file di Office (gli innumerevoli *.DOC e *.XLS, per intenderci).

Certo, i recenti Microsoft Office 2003 e Office System salvano anche in un formato aperto basato su XML, ma dato che molti utenti sono rimasti fedeli alle vecchie versioni di Office che non gestiscono questo formato aperto, per ovvie ragioni di compatibilità anche chi ha il nuovo Office continua a usare il formato binario segreto.

Il motivo per cui il formato “vecchio” resta segreto è puramente commerciale: se venisse divulgato, la concorrenza (OpenOffice.org, StarOffice di Sun e tutte le altre suite per ufficio alternative) potrebbe offrire la totale compatibilità con i formati Microsoft e quindi rompere l’attuale legame di dipendenza che è alla base del successo commerciale della suite Microsoft.

Arsenico e vecchi segreti

Dipendenza? Certo. Gli utenti di Microsoft Office hanno accumulato un patrimonio di documenti in formati proprietari segreti di Microsoft, e per leggerli e modificarli correttamente devono continuare ad acquistare Microsoft Office. Naturalmente, avendolo acquistato, lo usano anche per generare nuovi documenti, sempre usando i formati proprietari segreti, perpetuando la situazione.

Questo è di gran lunga il più grande ostacolo alla migrazione a software e sistemi operativi alternativi a più basso costo. Linux, per esempio, funziona, ma inevitabilmente ci si scontra con la tipica domanda che stronca tutto: “Ci posso usare i documenti di Word?”.

Dichiarare che non bisogna dare sostegno al software libero perché uccide il lavoro dei programmatori stipendiati e delle case produttrici di software è come affermare che non bisogna sostenere chi fa volontariato medico, perché toglie lavoro agli infermieri professionali e agli ospedali privati. Presentare il proprio modello commerciale come garante della compatibilità e nel contempo dipendere da formati segreti incompatibili è un controsenso lampante.

Se Microsoft fa sul serio, cominci dunque a divulgare i propri formati segreti e smetta di inventarsi teorie economiche strampalate; poi ne riparliamo. Senza queste premesse, non si va da nessuna parte e si convincono soltanto gli ingenui. Per il suo stesso bene, è ora che se ne renda conto anche Microsoft.

L'autore

  • Paolo Attivissimo
    Paolo Attivissimo (non è uno pseudonimo) è nato nel 1963 a York, Inghilterra. Ha vissuto a lungo in Italia e ora oscilla per lavoro fra Italia, Lussemburgo e Inghilterra. E' autore di numerosi bestseller Apogeo e editor del sito www.attivissimo.net.

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