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Intellettuale non proprio

15 Maggio 2015

Intellettuale non proprio

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La terminologia è importante ed è ora di distinguere chiaramente nel mondo digitale tra copyright, marchi, brevetti e altre ricchezze.

Le parole sono importanti, gridava un alterato Nanni Moretti nella nota scena di Palombella rossa. E non si può negare che la pignoleria sull’uso dei termini sia un cavallo di battaglia dei principali esponenti della cultura open.

Ho detto open?! No, forse volevo dire free. Ma open è più efficace… Ecco, ad esempio questo semplice scambio di aggettivi sarebbe sufficiente per beccarsi una tirata di orecchi da Richard Stallman. Ricordo infatti che la prima volta che lo incontrai (nel lontano 2004), mi guardò in cagnesco perché su un mio opuscolo avevo scritto Linux invece che GNU/Linux.

Tra i termini bersagliati da Stallman primeggia proprietà intellettuale (si veda il saggio Hai detto “proprietà intellettuale”? È un miraggio seducente), dizione che secondo il suo modo di vedere ha due importanti limiti semantici: uno è mettere in un unico calderone istituti giuridici che hanno meccanismi e principi molto diversi (copyright, brevetti, marchi…), l’altro è far passare l’idea che ci possa essere una proprietà privata su beni di per sé immateriali e per loro natura non soggetti a scarsità (ovvero i frutti della creatività e dell’inventiva umana).

Non esiste una nozione univoca di una cosa chiamata “proprietà intellettuale”; è un miraggio. La sola ragione per la quale la gente pensa che abbia un senso come categoria coerente è che l’ampio uso del termine li ha confusi rispetto alle leggi in questione.

Ciò nonostante questo termine, proprio per la sua capacità di comprendere varie materie che a livello accademico e di business vengono trattate insieme, riscontra un largo utilizzo. Non a caso il massimo ente che a livello internazionale si occupa di questo settore si chiama proprio Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (o WIPO, se utilizziamo la versione anglofona).

Da tempo sul sito della Free Software Foundation è attiva una campagna con raccolta firme per chiedere formalmente alle Nazioni Unite di ripensare il nome dell’ente, parlando di ricchezza intellettuale (o forse patrimonio intellettuale) invece che di proprietà intellettuale:

Una Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale sarà, comprensibilmente, sempre incline all’applicazione di quell’insieme preselezionato di strumenti di monopolizzazione a cui ci si riferisce con «Proprietà Intellettuale»; un termine che troviamo carico ideologicamente e pericolosamente ignaro delle significative differenze che esistono fra le molte aree della giurisprudenza che cerca di sottintendere. […]

Abbiamo piuttosto bisogno di una World Intellectual Wealth Organisation (Organizzazione Mondiale della Ricchezza Intellettuale), dedicata alla ricerca e alla promozione di modalità nuove e creative per incoraggiare la produzione e la disseminazione della conoscenza.

Non vi è dubbio che si tratti della classica questione di principio giocata unicamente sul senso delle parole e sul loro significato convenzionale. Quindi forse lo spirito è più quello di una provocazione.

Ad ogni modo, sul sito risultano le firme di una quarantina di associazioni (tra cui una buona percentuale di italiane) e di circa 180 persone fisiche.

Il testo di questo articolo è sotto licenza Creative Commons Attribution – Share Alike 4.0.

L'autore

  • Simone Aliprandi
    Simone Aliprandi è un avvocato che si occupa di consulenza, ricerca e formazione nel campo del diritto d’autore e più in generale del diritto dell’ICT. Responsabile del progetto copyleft-italia.it, è membro del network Array e collabora come docente con alcuni istituti universitari. Ha pubblicato articoli e libri sul mondo delle tecnologie open e della cultura libera, rilasciando tutte le sue opere con licenze di tipo copyleft.

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