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Stiamo cablando una casa di vetro?

02 Settembre 2010

Stiamo cablando una casa di vetro?

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Saremo obbligati dalla pressione sociale a essere trasparenti, sempre e comunque? E questo non ci porterà, sui social media, a recitare sofisticate commedie per nascondere la nostra (talvolta discutibile) realtà?

Anni fa, quando abitavo in Lussemburgo (il primo del paio di giri da emigrante che ho fatto), ero rimasto molto colpito dalle tendine olandesi. O meglio, dalla mancanza generalizzata delle tendine alle finestre. Il mio compagno di birre autoctono aveva razionalizzato il costume in termini sociologici. La mancanza di tende e la perfetta visibilità dall’esterno era una garanzia, diceva, una dimostrazione della moralità degli abitanti. Probabilmente un retaggio calvinista, comunque un modo di dimostrare che non si aveva nulla da nascondere. Vivendo quindi in modo assolutamente trasparente. Con l’arrivo di Internet, e in particolare dei social media, anche noi abbiamo tolto un sacco di tendine dalle finestre. Anzi abbiamo fatto di più: invece di lasciar guardare chi è interessato, ci diamo da fare per diffondere proattivamente i fatti nostri al nostro network.

Perché avevi il telefono staccato?

Ora, la questione secondo me (e l’ho già detto) ha sicuramente degli aspetti positivi – grazie a Facebook e agli altri social network posso sapere che cosa fanno gli amici a cui tengo, restare aggiornato anche quando non ho il tempo di telefonare, rivederci a distanza di tempo scoprendoci sintonizzati. Ha degli aspetti interessanti anche dal punto di vista professionale, a volte anche per il tramite di messaggi un po’ obliqui e criptati, specialmente per quello che riguarda le geolocalizzazioni: tracciando i tuoi spostamenti, il tuo mondo e il tuo mercato possono ricevere messaggi che non potrebbero essere passati esplicitamente in precedenza, per esempio in termini di  nuovi affari in corso. Insomma, come in tutte le faccende di Internet, c’è molto di buono. Ma ci sono anche dei rischi.

Un esempio classico del potenziale di rischio ce lo dà già il telefonino. Provate a lasciare spento il cellulare: amici e clienti vi fanno il terzo grado, se non siete rintracciabili. Ancor di più mogli o fidanzati, che in casi limite vanno a controllare se davvero la batteria è al limite o il credito è esaurito. Abituando il mondo a un’assoluta trasparenza, l’opacità diventa sospetta. Non comunicare, non dire dove siamo e che cosa facciamo (e con chi, facile attraverso l’incrocio degli status o dei posizionamenti su Foursquare) potrebbe presto significare che ciò che non comunichiamo non è comunicabile. Il sospetto. Un po’ come la faccenda delle intercettazioni telefoniche, anche se ci siamo arrivati attraverso un percorso diverso: ora si sostiene perfino che tutti dovrebbero essere intercettati,e i verbali resi pubblici. Chi si oppone ha sicuramente qualcosa da nascondere. Il rifiuto,l’appello alla privacy potrebbe assurgere alla confessione di non essere persona retta, proba, al di sopra di ogni sospetto. Del resto si dice non avere nulla da nascondere, che significa non mettere tendine alle proprie finestre, digitali o reali che siano.

Amico cliente

A me, non avendo ovviamente nulla da nascondere, può andare anche bene un regime orwelliano di mancanza di privacy. (Sto mentendo spudoratamente, ma se dicessi il contrario so che instillerei il sospetto di oscuri retroscena e doppie vita censurabili.) Però la questione si fa complicata. Il caso tipico: un cliente o un datore di lavoro ti chiede l’amicizia su Facebook. Ergo l’accesso alla tua vita privata, per cominciare – qualcosa che non necessariamente ti va di fare. Se gli dici che domani proprio non puoi andare in riunione e dobbiamo trovare un’altra data, può diventare imbarazzante se scopre che gli hai scombinato l’agenda per una cosa così meschina come prenderti un giorno per riordinare la cantina. E non è solo una questione di livelli di privacy, di selezione di quali informazioni rendere visibili a chi, vedi Diaspora e compagni. Se a un cliente attivassi una amicizia di “livello cliente” e quindi gli togliessi la visibilità sulle mie cose private, c’è anche chi potrebbe risentirsi, sulla base che “ormai siamo amici no?”. O peggio: “credevo fossimo amici e ci si potesse fidare l’uno dell’altro”. O ancora peggio: “va bene la privacy, ma se mi nascondi delle informazioni allora vuol dire che hai qualcosa da nascondere?”.

E così, in maniera più allargata, l’impossibilità di celare senza conseguenze informazioni a tutta la rete personale: possono essere i possibili clienti, il mercato, i conoscenti superficiali, i parenti o le persone importanti che è interessante tenersi buone, ma che amici amici non sono. Persone che magari non si prendono il mal di pancia di buttare l’occhio dentro casa nostra, di sbirciare dalla finestra – a meno che non ci sia una tenda oscurante, nel qual caso diventano immediatamente interessatissimi.

Personaggi

Conclusione: se finora i social media sono (anche) stati un modo di raccontare al mondo come siamo davvero, forse domani diventeranno la rappresentazione del nostro personaggio per tenere celata la nostra vera natura; il teatro di una commedia giocata su un palcoscenico digitale dove tutti potrebbero osservarci (e, come sostiene mia madre, già lo fanno, ragion per cui occhio ad avere sempre la biancheria pulita e i calzini senza buchi, che non si sa mai e la gente parla). Dovremo allora gestire la nostra immagine, il nostro personal brand, il nostro percepito sulla base di raffinati script che metteremo in scena online (o commissioneremo a sceneggiatori digitali), per fare la giusta figura con il nostro network. Togliendo sì le tendine dalle finestre, ma sostituendole con un telone su cui proietteremo il film di come dovrebbe essere – in modo socialmente accettabile ed encomiabile – la nostra vita.

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