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Caso Vividown, parla l’avvocato di Google

25 Febbraio 2010

Caso Vividown, parla l’avvocato di Google

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Richiedere il consenso alla piattaforma che ospita i video non è esigibile e contrasta con la disciplina sul commercio elettronico, dice l'avvocato Giuseppe Vaciago, uno dei legali che ha difeso Google Italy nel discusso processo

Avvocato Giuseppe Vaciago, quali erano i capi di imputazione contro Google Italia al processo di Milano e quale è stata la formula di assoluzione dal capo di imputazione per diffamazione?

I capi di imputazione erano due: violazione della privacy e concorso omissivo nel reato di diffamazione. Tutti gli imputati sono stati assolti con formula piena per quanto riguarda il capo d’imputazione relativo alla diffamazione e non hanno ottenuto risarcimenti le due parti civili costituite, ossia il Difensore Civico del Comune di Milano e l’associazione Vividown, poiché la loro posizione era legata solo al reato di diffamazione contestato agli imputati.

Quando e come si è sviluppato nel corso del processo il capo di imputazione relativo alla privacy?

Al fine di provare il suo assunto e ottenere una criminalizzazione del servizio Google Video a titolo di diffamazione a mezzo stampa, i Pubblici Ministeri si sono subito accorti che non era possibile estendere ai titolari del motore di ricerca la normativa sulla stampa, in particolare l’articolo 57 del codice penale, cui pur si erano appellati i querelanti, possibilità negata inequivocabilmente dalla giurisprudenza, in quanto interpretazione analogica in malam partem di una disposizione penale, non consentita dalla legge. I Pubblici Ministeri hanno cercato di collegare causalmente la condotta dei legali rappresentanti di Google Italy con quella dell’uploader attraverso la presunta violazione della legge italiana sulla privacy, che avrebbe indotto l’utente a pubblicare liberamente il video, in quanto non informato che il contenuto dello stesso era illegittimo. Questa ricostruzione non ha passato il vaglio del Tribunale, in quanto il Giudice, come già detto, ha assolto tutti gli imputati per il reato di diffamazione. Anche perchè tutti i requisiti dell’informativa previsti dalla normativa sulla privacy erano stati rispettati da Google Video.

Quindi dall’esito del processo emerge che c’è un obbligo di controllo sui contenuti caricati dagli utenti?

Ogni opportuna valutazione si potrà fare solo dopo la lettura della motivazione della sentenza, tuttavia, l’assoluzione con formula piena sul reato di diffamazione può far legittimamente pensare che tale obbligo non sussista secondo il giudice.

Come è possibile, allora, ritenere che non sussista un obbligo di controllo sui contenuti e rispondere per la violazione della privacy commessa dall’utente che ha caricato il video?

Le contestazioni mosse dalla Procura relative alla normativa sulla privacy sono di duplice natura: la prima è quella di non aver chiesto al terzo soggetto ripreso (ossia il ragazzo disabile) il consenso alla pubblicazione dei suoi dati sensibili presenti nel video prima della sua immissione on line (articolo 23 comma 3 e articolo 26 del decreto legislativo 196/03). La seconda è quella di non aver ottemperato al presunto obbligo di interpello al Garante della Privacy prima di aver lanciato il servizio Google Video (articolo 17 dello stesso decreto). Non sapremo fino al deposito della motivazione se il Giudice ha riconosciuto gli imputati colpevoli di tutte e due le violazioni della privacy o solo di una.

Il mio auspicio è che non si tratti della prima (ossia della richiesta del consenso), in quanto ritenere che piattaforme come Google Video debbano ottenere il consenso da parte di chiunque appaia in un video significherebbe imporre un obbligo inesigibile e nessun controllo preventivo potrebbe consentire di verificare se vi è stato consenso o meno da parte di tutti gli interessati. Intermediari come Google Video devono essere in grado di fare affidamento sulla certificazione dell’uploader che il necessario consenso è stato ottenuto. Si pensi a un video di un matrimonio o alle foto dei propri amici: chi può garantire  che il necessario consenso sia stato ottenuto da tutti i soggetti ripresi? C’è una sola risposta: è l’utente/uploader che si impegna a garantire contrattualmente che il contenuto caricato nel video abbia tutte le autorizzazioni richieste.

Come si rapporta il controllo sui contenuti e il principio del consenso, quindi, in questo caso?

La condotta richiesta dall’accusa per la quale ogni piattaforma dovrebbe richiedere il consenso a chiunque appaia nel video oltre a non essere esigibile, potrebbe far sorgere un contrasto con la disciplina sul commercio elettronico che esonera espressamente da un obbligo di controllo preventivo sui contenuti: come si fa, infatti, a chiedere il consenso dei soggetti interessati o a verificarne l’esistenza, senza controllare i contenuti di un video immesso in Rete? Se invece si volesse ritenere che sia l’uploader a dover richiedere il consenso del terzo soggetto ripreso (ossia il ragazzo disabile) e non la piattaforma, allora non vi sarebbe alcun contrasto tra le due normative. Tuttavia, come già detto, analisi più approfondite si potranno fare solo dopo aver letto la motivazione della sentenza.

L'autore

  • Elvira Berlingieri
    Elvira Berlingieri, avvocato, vive tra Firenze e Amsterdam. Si occupa di diritto delle nuove tecnologie, diritto d'autore e proprietà intellettuale, protezione dei dati personali, e-learning, libertà di espressione ed editoria digitale. Effettua consulenza strategica R&D in ambito di e-commerce e marketing online. Docente, relatore e autore di pubblicazioni in materia, potete incontrarla online su www.elviraberlingieri.com o su Twitter @elvirab.

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