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E chi le pagherà tutte queste notizie?

10 Giugno 2009

E chi le pagherà tutte queste notizie?

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Un documento dell'American Press Institute raccomanda agli editori di farsi pagare, di combattere per il copyright e di rifocalizzarsi sui consumer per sopravvivere alla tempesta elettronica

Non c’è alcun dubbio: sono tempi duri per i quotidiani (e i periodici) americani. Il business non è più quello di una volta, come manifestato drammaticamente anche da un calo mai visto prima nella raccolta pubblicitaria nel primo trimestre 2009. Il mondo della rete e del mobile hanno portato una forte innovazione, ma altrettanta disruption nel mondo dell’editoria; cala la carta a favore dell’elettronica, per non parlare dei danni fatti dai free newspaper. Un content una volta blindatissimamente proprietario oggi può essere redistribuito, citato, disintermediato da blogger e aggregatori: leggiamo spesso notizie su “media” che non sono quelli che hanno prodotto la notizia originale, con la conseguenza che il produttore originario fa la fatica e non vede il quattrino. Insomma tira una gran brutta aria, e in questo contesto l’American Press Institute ha incontrato gli executive di prestigiose testate americane, armato di un documento che presenta una strategia – o almeno dei suggerimenti per affrontare con forza questa tempesta elettronica. Con l’idea di risollevare almeno in parte il business attraverso una serie di azioni di monetizzazione e di riappropriazione del proprio lavoro.

Non solo gli utenti

Insomma, se content wants to be free, i produttori di content want to get money. Approccio comprensibile, almeno dal punto di vista di coloro che se non fanno soldi da nessuna parte chiudono, mandano a casa la gente. Tuttavia non sono certo che il panorama dell’informazione migliorerebbe di conseguenza. Senza ricorrere a soluzioni innovative come quelle dell’outsourcing del giornalismo a professionisti indiani (stile call center, si veda questo articolo di Internazionale), le strade avanzate da Api vanno in direzioni che a molti di noi non piacciono e quel che è peggio potrebbero non piacere nemmeno ai lettori. La prima raccomandazione, in estrema sintesi, è quella di farsi pagare per i contenuti. Dare un prezzo significa dare un valore, no? La gente non apprezza appieno ciò che è gratis. Si raccomanda dunque di farsi pagare dagli utenti, ma anche da chi riusa i nostri contenuti, li aggrega e magari fa leggere la “loro” notizia sul proprio sito incassando revenue pubblicitarie.

Si teorizza che il modello advertising-based era sensato quando internet era una nicchia; ma ora che diventa mainstream e che molta gente (in Italia un 40%) usa Internet per informarsi comincia ad avere moltissimo senso fare pagare direttamente il servizio. Anche perché secondo una ricerca citata nel documento, il 22% degli intervistati ha dichiarato di aver cancellato l’abbonamento ad una testata, dato che poteva avere le stesso notizie gratis online (e sarebbe stato strano il contrario). Quanto alla pubblicità, il report sembra essere alquanto pessimista sul suo potenziale come fonte di revenue in grado di sostituire quella “tradizionale” sui periodici di carta.

Sperimentare è la chiave

In quest’ambito dunque anche una raccomandazione a perseguire in modo più aggressivo i diritti al copyright (Google, preparati a cacciare soldi agli editori o agli avvocati – o a entrambi) ma anche a sperimentare. In effetti, dico io, dato che ogni innovazione inevitabilmente modifica la cultura, la società, le persone, non possiamo sapere ex ante cosa funzionerà bene e cosa no. In questi campi anche le ricerche di mercato presentano dei limiti forti: l’unica è proprio provarci e investire, anche in considerazione del fatto che l’online si presenta come un mercato ad altissimo potenziale di crescita in termini di soldi (almeno in teoria, direi). Sperimentare sì, ma non proprio su tutto, visto che il report sparacchia abbastanza su Kindle, il lettore di e-book (e di e-giornali) di Amazon. In estrema sintesi si critica il device in quanto avrebbe un pubblico abbastanza maturo (e con discrete disponibilità finanziarie, direi io, visto quello che costa) – un pubblico dunque che duplica quello attuale dei quotidiani e non lo allarga.

Eh già, perché un altro bel pezzo di problema sono le nuove generazioni, che in certa misura si sono disabituate al periodico di carta. Da vedere se mettendo l’online a pagamento si riesce a farle innovare (per loro) e a provare l’ebbrezza del fruscio della pagina, che funziona anche senza batterie. Una bella scommessa. Un altro dei motivi di negatività verso il Kindle è il piccolo fatto che Amazon si becca il 70% delle revenue, gli incassi pubblicitari e il diritto di ristampa (fattore questo che immagino irriti gli editori ben più delle duplicazioni sul target).

Facciamo a meno di te

D’altra parte viene intelligentemente raccomandato di concentrarsi sugli utenti, sui consumatori, rifocalizzandosi sui lettori – e meno sugli investitori pubblicitari. In quest’ambito, con una classica strategia di segmentazione di mercato, si raccomanda di coccolare e tenersi stretti gli user fedeli, quelli core. È evidente che passando a pagamento si perderanno molti utenti: a parte il fatto che perdere gente che mangia gratis e non porta soldi dal punto di vista business forse è meglio che non perderli, mi sembra di vedere un futuro dove chi vuole le informazioni e i contenuti gratuitamente dovrà accettare di consumare prodotti di minor livello e maggior popolarità (in termini qualitativi e quantitativi), mentre i media a pagamento dovranno probabilmente relegarsi a una nicchia di persone che cercano maggiore qualità e che in cambio di questa sono disposti a pagare (ma devono davvero ottenerla, altrimenti il giocattolo si rompe subito). Vedo profilarsi un information divide, uno scenario alla Current TV contro Rete4.

Il documento – che non mi sembra proprio essere stato pensato per una diffusione al pubblico, quindi mi sbrigherei a scaricarlo prima che magari lo tolgano di torno – è comunque interessante: discutibile, ma stimolante e sicuramente destinato a scatenare furiose polemiche. Polemiche di segno opposto: molti di noi urleranno che l’informazione deve essere libera (eccetera), mentre quelli che vivono di informazione urleranno il loro diritto a lavorare professionalmente e a essere pagati per il loro lavoro. E gli editori urleranno che il lavoro che fa il publisher ha diritto a essere adeguatamente remunerato. Come al solito staremo a vedere che cosa deciderà il mercato, che è quello che nel nostro sistema ha (spesso?) l’ultima parola. Sapendo che non sempre i consumatori scelgono le soluzioni qualitativamente eccellenti o che le soluzioni a pagamento magari non sono per questo quelle migliori.

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