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L’erba dell’elefante: una sferzata d’energia

13 Gennaio 2006

L’erba dell’elefante: una sferzata d’energia

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Nello scenario delle fonti energetiche alternative entra una nuova pianta che potrebbe aiutarci a ridurre la dipendenza dagli idrocarburi e a inquinare un po’ meno.

Gli scenari futuri dell’approvvigionamento energetico sono oggigiorno terribilmente complessi.

L’instabilità geopolitica e il fortissimo incremento della richiesta da parte dei paesi emergenti hanno fatto sensibilmente aumentare il prezzo delle materie combustibili. D’altro canto, questa salita ha stimolato la individuazione di nuovi giacimenti e l’adozione di tecniche di estrazione che hanno permesso di sfruttare pozzi altrimenti non economici.

Anche se non è assolutamente chiaro l’ammontare delle riserve ancora a disposizione dell’umanità, le società operanti nel campo dell’energia hanno deciso che il business della generazione di energia non legata agli idrocarburi è una direttrice importante di sviluppo, tant’è che è in ripartenza il comparto nucleare.

O meglio, il nucleare avrebbe una gran voglia di ripartire non fosse che si trova inestricabilmente bloccato dal problema delle scorie. Negli Stati Uniti, paese leader nel nucleare, si è ormai a uno scacco matto che non trova sbocco tra le pressioni social-ecologiche e i dietrofront del mondo politico. E così le centrali devono parcheggiare il combustibile esaurito (ma molto radioattivo) nei propri cortili, con tutti i rischi connessi a eventuali catastrofi naturali o atti terroristici.

La faticosa marcia delle fonti alternative

Di fonte a queste complicazioni, prende un po’ più di slancio la ricerca scientifica verso le sorgenti energetiche alternative, anche se resta terribilmente in salita la strada per lo sviluppo di fonti che possano combinare la compatibilità ambientale con un costo accettabile per l’economia industriale (e il portafoglio dei consumatori).

Se Solare ed Eolico hanno comunque negli ultimi anni conosciuto un certo sviluppo, l’uso delle biomasse ha fatto parlare relativamente poco di sè (per biomasse si intendono materiali di origine vegetale o animali, come residui di produzioni alimentari o piante appositamente coltivate, che possono essere infilati in una centrale e bruciati per produrre energia elettrica).

Le cose potrebbero cambiare grazie al Miscanthus Giganteus, detta anche “Elephant Grass”.

Questa pianta, parente della canna da zucchero, è capace di crescere rapidamente di parecchi metri, in terreni sterili, poco lavorati e con climi temperati.

Un’erba miracolosa?

Una pianta “facile” quindi, che si prospetta come un combustibile interessante per future centrali termoelettriche: presenta infatti la capacita di immagazzinare energia in modo più efficiente rispetto a molte altre specie vegetali attualmente in sperimentazione e, come tutte le piante, contribuisce poco all’inquinamento da CO2. La sua combustione si limita infatti a rilasciare nell’ambiente l’anidride carbonica che aveva precedentemente sottratto per la sua crescita (a differenza dei combustibili fossili, che generano “nuova” CO2).

Altro vantaggio non da poco è che la pianta è sterile (si può riprodurre per divisione del rizoma – operazione che richiede però molto lavoro manuale) e non presenta quindi il rischio di diventare infestante, a differenza di altri candidati che potrebbero diffondersi senza controllo con possibili impatti sull’ecologia locale.

Il potenziale economico del Miscanthus non è disprezzabile: in condizioni (molto) ottimali, la pianta può rendere fino a 60 tonnellate per ettaro, pari a 180 barili di petrolio – per un valore equivalente di parecchie migliaia di euro. Il tutto a un costo accettabile: la pianta è naturalmente resistente a malattie e parassiti, richiede poche cure (a parte il processo di propagazione – ma si stanno studiandosistemi più automatizzati), poco fertilizzante e potrebbe già oggi essere utilizzata in alcune centrali termiche senza necessità di modifiche ai bruciatori.

Il Miscanthus è per questi motivi da tempo oggetto di attenzioni negli Stati Uniti e in Europa: in Danimarca esiste un centro di ricerca che lo coltiva da oltre 20 anni, numerosi progetti europei lo stanno studiando e una cooperativa di agricoltori inglesi prevede di coltivare diecimila ettari di terreno con questa pianta.

La nostra erba sarebbe più verde di quella del vicino?

In prospettiva non è impensabile uno scenario in cui questa pianta potrà renderci più autonomi energeticamente e più ambientalmente compatibili – oltre a risolvere una serie di problemi che affliggono oggi l’agricoltura di molti paesi europei, come la siccità nella fascia mediterranea o il fosco futuro di molte produzioni agricole per via di aspetti politici.

La riduzione dei contributi per l’agricoltura in molti paesi Europei della prima generazione (a favore dei nuovi membri) e le pressioni da parte dei paesi in via di sviluppo perché le nazioni sviluppate abbattano le barriere protezionistiche in campo agricolo potranno infatti rendere antieconomiche molte produzioni tradizionali, costringendo gli agricoltori europei a trovare nuove coltivazioni a prova di concorrenza oppure ad abbandonare i campi.

Usiamo pure l’erba, ma facciamo la nostra parte

L’erba dell’elefante potrebbe dunque dare, se le sperimentazioni continuano a essere favorevoli, un notevole aiuto, per esempio producendo l’energia elettrica necessaria per produrre l’idrogeno che le auto del futuro potranno bruciare per non inquinare le città.

Anche se comunque la ricerca fa grandi sforzi per trovare nuove fonti e per rendere più efficiente il consumo, la chiave di tutto risiede certamente nella nostra capacità di ridurre l’utilizzo di energia: qui ognuno di noi può dare dei piccoli ma importanti contributi in questo campo: sostituire, per esempio, le lampadine tradizionali con quelle fluorescenti, usare meno l’auto, abbassare il termostato del riscaldamento, condividere la doccia con una persona che ci gusti.

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