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Linux: il mito dell’installazione impossibile

27 Gennaio 2003

Linux: il mito dell’installazione impossibile

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TuX è il pinguino mascotte di Linux. Ma qual è la sua storia? Come è diventato il paladino del software libero? In questo viaggio-racconto immaginario lo vediamo alle prese con l'installazione del sistema operativo. Incredibile ma vero, sono i suoi amici, dell'Alessandria Linux User Group a insegnargli tutti i segreti del mondo Linux e finalmente ci racconta la sua storia

«No, è troppo difficile, roba da hacker, lo sai. E comunque, non voglio perdere il mio lavoro». Ho perso il conto delle volte che gli ho dato questa risposta. Un ragazzo cocciuto, il mio amico Andy, non c’è che dire: sono quasi due anni che cerca di convincermi a provare quel suo Linux. Ricordo che la prima volta, non sapendo nemmeno di cosa stesse parlando, accettai di buon grado. Andy l’ha sempre saputa più lunga di me sui computer.

Inserì un Cd anonimo nel mio Pc e lo spense, operazione che mi insospettì non poco: come intendeva installare qualcosa spegnendo tutto? Dopo aver ridato vita alla macchina, il mio sospetto si tramutò rapidamente in sgomento. Il mio rassicurante schermo colorato si era trasformato in un groviglio di scritte in inglese, e Andy faceva scelte e scriveva comandi strani in uno schermo nero a caratteri. Dopo un paio di minuti di intenso lavoro, ne emerse raggiante annunciando che eravamo quasi pronti a cominciare l’operazione.

Fu allora che presi la decisione di declinare la gentile offerta di Andy, e lasciare il mio computer com’era. Ci avevo messo non poco a capirne il funzionamento, e ora esibivo una certa sicurezza: nel giro di due minuti, il terrore irrazionale di non riuscire più a controllare il mio sistema aveva preso il sopravvento. Da allora, Andy aveva tentato più volte di convincermi a riprovarci: avevo trovato quella risposta, che finora lo aveva sempre tenuto a bada. Un ragazzo cocciuto, dicevo. Ma l’ultima volta la reazione di Andy fu un largo sorriso beffardo, e subito prese a rovistare nella sua borsa. Un cambiamento del nostro rituale biennale che mi mise subito in allarme. Estrasse un computer portatile e qualche Cd masterizzato. «Ho capito cosa stai facendo, ma non ti riuscirà nemmeno questa volta», provai a insinuare, ma Andy continuava a sorridere, silenzioso e sicuro di sé.

Accese il portatile, per lasciarmi constatare la comparsa della solita schermata colorata di caricamento. Quindi ravviò, avendo prima l’accortezza di inserire uno dei suoi Cd. Il portatile era già settato per fare il boot da Cd-Rom, quindi iniziò immediatamente a leggerlo: in caso contrario, spiegò Andy, avrebbe dovuto entrare nei settaggi iniziali del Bios e specificare di provare a partire prima dal Cd-Rom e solo successivamente dal disco fisso. Una sciocchezza, ma forse non ci avrei pensato.

Dovetti ammetterlo, Andy aveva i suoi motivi per sorridere. Tutte le brutte scritte inglesi erano state sostituite da una piacevole schermata grafica, che invitava ad attendere qualche momento. Mi chiesi cosa significasse quel camaleonte stilizzato, ma indubbiamente questo Linux era cambiato parecchio. «È semplicemente il simbolo di SuSE», disse Andy, leggendomi nella mente. «Come Windows ha la finestrella con i quattro colori, SuSE ha il camaleontino. Ma non mi chiedere perché». Evitai di chiedere: anche se più attraente graficamente, le complicate operazioni della volta precedente potevano ancora essere in agguato ed esigere fin troppe domande da parte mia.

Dopo poco, apparve una schermata che invitava a selezionare una lingua da una lista molto lunga. Andy mi invitò a provare di persona ad eseguire le operazioni. <> fu la mia reazione al video che attendeva che io selezionassi la parola <>. Cliccai con il mouse, e subito il pulsante <> si trasformò in <>: un invito abbastanza chiaro. Una volta premuto, il computer si rimise al lavoro, e dopo qualche istante elencò una serie di informazioni e, in basso, un tasto con la scritta <>.

«Capisci qualcosa di quell’elenco?» chiese Andy con aria di sfida. In effetti, qualcuna la capivo perfettamente: la prima riga riportava la mia scelta circa l’italiano, nella seconda sosteneva che io avessi una tastiera italiana; ne apparivano anche altre, come il fuso orario impostato su Roma. Alcune invece non le capivo. Decisi comunque di mettere i bastoni tra le ruote al mio amico, perché ero comunque un po’ spaventato dal fatto di non capire esattamente quello che facevo: «No, nulla. Meglio della volta scorsa, devo ammetterlo, ma non capisco lo stesso tutte quelle scritte». Pensai di aver vinto di nuovo, nonostante la buona volontà di Andy. Ma lui continuava a sorridere. Mi disse che non era importante capire, e mi suggerì di premere semplicemente il tasto <>.

Un po’ dubbioso, provai: apparve una finestrella con l’indicazione che l’installazione sarebbe cominciata immediatamente. «Visto? Non era così difficile, hai appena finito di installare Linux». Probabilmente mi prendeva in giro, così usai il pulsante con scritto <>: se mi aveva fatto qualche scherzo ci avrebbe rimesso lui, il portatile era suo. Il computer riprese a lavorare, e osservai lo schermo che si trasformò e diceva che l’installazione sarebbe finita dopo circa mezz’ora. E Andy mi osservava sorridendo, in attesa. Alla fine dissi: «Ok, hai vinto. Ce l’avrei fatta anche da solo. È cambiato moltissimo». Esattamente quello che si aspettava. Se il computer fosse stato il mio, la domanda successiva mi sarebbe venuta immediatamente, accompagnata da una marcata tachicardia, ma Andy mi anticipò: «Non ti preoccupare per Windows: la prossima volta che accenderò il portatile, apparirà una videata che permetterà di scegliere se usare quello o il tuo nuovo, scintillante Linux». Un piccolo miracolo, per le mie misere conoscenze informatiche. Raggiante per l’imminente vittoria, Andy accantonò il suo silenzio provocatorio e mi diede qualche spiegazione.

«Ti avevo già detto della grande comunità che sviluppa Linux. Le persone che ci lavorano sono talmente tante e tutte animate da un fervido spirito di collaborazione, che la crescita e il miglioramento di Linux avvengono a un ritmo impensabile per qualunque altro programma, anche commerciale. E in due anni, le cose sono cambiate moltissimo, te ne sei accorto da solo. La procedura di installazione è solo un esempio: ne vediamo qualche dettaglio, così potrai capire la filosofia che sta alla base di Linux.

Ricordi che c’era un elenco di cose che hai detto di non capire, e che abbiamo totalmente ignorato? Bene. Lasciamo stare il fatto che hai mentito, perché qualcosa lo hai capito sicuramente».

A volte Andy sapeva essere davvero irritante. «Se proviamo ad addentrarci in quell’elenco, possiamo complicare la nostra installazione quanto vogliamo, ma come hai visto non è necessario. La forza di Linux è proprio questa: puoi usarlo in modo molto semplice, ma se vuoi puoi personalizzare il sistema e deciderne ogni aspetto, senza lasciare nulla al caso. Tanto per fare un parallelo, il tuo Windows ti permette di fare solo la prima delle due, non solo in fase di installazione. Ma lasciamo stare, sai che mi piace polemizzare sul fatto che non consiglierei mai un sistema di cui non posso studiare ogni minimo dettaglio circa il funzionamento: magari io non lo capisco, ma ci sarà qualcuno in grado di darmi una mano e risolvere i problemi. Ravviare o reinstallare, come sai, sono pratiche dei sistemi per cui non è possibile fare in altro modo, cosa che a me pare informaticamente “primitiva”». Non ci voleva molta fantasia per cogliere la sua allusione.

«Diamo un’occhiata all’elenco. Ah, questa è una voce interessante: il partizionamento. Sai di cosa si tratta?» Ovviamente qualcosa avevo sentito: il disco fisico può essere diviso in 4 unità logiche, o partizioni, che sarebbero state viste come dischi indipendenti dai programmi. Volendo, una di queste poteva essere a sua volta suddivisa in tante partizioni estese, in modo da averne all’occorrenza più di quattro. Ma è un aspetto che, confessai, non avevo mai considerato molto.

«È sbagliato installare tutto in una partizione, anche se tutte le preinstallazioni di Windows sono fatte esattamente così. Rischi di perdere tutti i tuoi dati per un singolo errore, o di rovinare il sistema operativo per qualche tuo intervento sbagliato. Mettendo le cose in partizioni diverse aumenti la stabilità del sistema. Inoltre, con una tecnologia chiamata LVM puoi modificare le tue partizioni al volo, mentre il sistema è acceso. E come vedi non è molto difficile». Lo schermo mostrava l’elenco dei dischi e delle partizioni, e i tasti in basso con scritto <>, <> e <> sembravano abbastanza semplici. Incredibile, pensai: ero convinto che le partizioni non si potessero modificare senza cancellare tutto.

«Non c’è un metodo universale per partizionare, ognuno ha le sue preferenze sulla base della propria esperienza. Potresti semplicemente mettere tutto in una partizione, diciamo 3Gb. Ma volendo potresti creare una seconda partizione di 4Gb e metterci dentro i dati degli utenti, tutti contenuti nella cartella /home: in questo modo, potresti reinstallare il sistema da zero o installarne uno diverso, senza perdere nulla dei settaggi e preferenze dei tuoi utenti». Mi sembrava un miraggio: tutte le volte che io reinstallavo il sistema, dovevo reinstallare anche tutte le applicazioni e configurare tutto come prima. Ma Andy insisteva sul fatto che questo modo di gestire un computer è del tutto ridicolo. Non fece fatica a convincermi: l’avevo sempre pensato anche io.

«Secondo me non hai mica capito la storia della cartella /home» continuò Andy. «Vedi, tu sei abituato a vedere i drive con le lettere, come “C:”, “‘D:”, o il floppy come “A:”. Ognuno di questi identifica un drive o una partizione del disco, e dentro ci sono poi le cartelle che a loro volta contengono i file e i documenti. Il “C:” è la cartella principale, o root, del disco “C:”, e ogni drive ha una root. Ti ritrovi in questo?». Feci cenno di aver capito, anche se ebbi bisogno di fare mente locale per un secondo; tuttavia, era una descrizione precisa di come funzionava il mio computer.

«In Linux, come in molti altri sistemi operativi, le letterine C, D e così via non esistono. Esiste invece una sola cartella principale, o root, identificata dal simbolo /. Tutte le cartelle e i file sono dentro la root. I diversi drive sono semplicemente delle cartelle diverse: ad esempio, per vedere cosa c’è dentro un Cd-Rom devi semplicemente guardare la cartella /cdrom. In questo modo, si nasconde la reale posizione delle cose sui dischi, rendendola irrilevante per l’utente. A questo punto, la cartella /home potrebbe stare su una partizione qualsiasi, anche su un computer diverso o su un cdrom: tu comunque la puoi visionare entrando in /home, e troverai sempre e solo i dati personali degli utenti».

Affascinante, anche se allora potevo solamente intuire le potenzialità di questa logica. La mia obiezione fu immediata: il discorso era certamente interessante, ma un pochino complicato. Andy non si lasciò scoraggiare e mi ricordò che per installare e usare Linux non era affatto necessario capire questo aspetto: il programma di installazione aveva deciso in modo automatico il partizionamento; se più avanti avessi deciso per divertimento, interesse o necessità di capire intervenire in questa fase, avrei sempre potuto farlo. In effetti dovetti dargli ragione: l’avevo visto succedere poco prima. In seguito venni a sapere che non era solo la /home ad essere definita in modo così preciso: tutte le cartelle principali sono stabilite rigorosamente. Ad esempio, in /etc si trovano tutti i file di configurazione del sistema; in /usr tutti i programmi installati dalla distribuzione; in /usr/local tutti i programmi creati e installati da me; in /tmp i file temporanei; in /bin e /sbin solo quei programmi strettamente necessari al funzionamento del sistema. Tutto questo permette di avere un sistema perfettamente organizzato e flessibile. Tutti i programmi che si installano in Linux rispettano queste regole.

E a proposito di programmi, Andy perse qualche minuto a mostrarmi un’altra voce del programma di installazione, quella del software. Mi spiegò che dentro i cd non si trova solo il sistema operativo, ma moltissimi programmi pronti per essere usati: nel caso di SuSE sono quasi 2000, ma altre distribuzioni ne hanno molti di più. Nella fase di installazione è possibile attenersi ad un elenco già creato da SuSE, adatto alla maggior parte delle persone, oppure scegliere personalmente i programmi da installare. Mi mostrò l’interfaccia grafica, e nuovamente mi ritrovai costretto ad ammirarne la semplicità: sulla sinistra le categorie come ufficio, giochi o sistema, e sulla destra una lista di tutti i software con una descrizione e un segno di spunta da cliccare per installare o rimuovere la voce corrispondente. Davvero semplice.

Mentre Andy mi spiegava tutto questo, il suo portatile procedeva nell’installazione. Improvvisamente apparvero delle nuove richieste. Ah! Lo sapevo che non poteva essere così semplice, “è momento di inserire codici e comandi sconosciuti”, pensai. Andy, come suo solito, si insinuò nel flusso dei miei pensieri: «Pensi che ti abbia mentito, vero? Sbagliato. Ora dobbiamo configurare le cose che ti chiedono tutti i sistemi operativi: la password dell’amministratore di sistema e i dati di un utente». La schermata voleva una password, specificando che si trattava di quella dell’amministratore. La digitai due volte per conferma, quindi fece la sua comparsa una nuova schermata, richiedendo un nome e una password. «Di nuovo? L’ho appena messa la password!» esclamai. Andy sorrise, e mi spiegò che una cosa è l’utente amministratore, colui che ha il permesso di fare tutto nel computer, un’altra è un normale utente che lavora con il computer. Quest’ultimo può usare i programmi, ma non può installarne, né aggiungere periferiche o collegarsi a internet se l’amministratore non glielo permette. E non è importante che il computer venga usato da una sola persona: in questo caso, il proprietario userà sempre l’utenza normale per lavorare, e ricorrerà a quella da amministratore solo in caso di bisogno. Questione di sicurezza, mi dice Andy. Ad esempio se un utente esegue un programma ideato per danneggiare il sistema, come un virus, questo non è in grado di danneggiare il sistema; ma se è l’amministratore ad eseguirlo, allora il virus ha la possibilità di danneggiare tutto. Andy spiegò che questo è fra i motivi per cui i virus sono così diffusi su Windows e non su Linux: l’utente normale ha normalmente i permessi da amministratore, una scelta terribile per la sicurezza del computer.

«Abbiamo praticamente finito. Vedi? Inseriti i dati dell’utente, ora chiede di confermare le scelte fatte per la grafica». Osservai lo schermo, e vidi che il programma di installazione aveva trovato il modello della scheda video e del monitor e aveva scelto una risoluzione di cui chiedeva la conferma. Ormai cominciavo a capire la logica: «Immagino che se io non sapessi cosa sia la risoluzione, mi basterebbe cliccare su Avanti…». Andy annuì soddisfatto e premette il bottone indicato da me. Il computer si mise nuovamente a lavorare, infine presentò una schermata con alcune voci come modem, scheda audio, scheda di rete, stampanti. Sotto alcune di queste c’erano alcuni nomi di periferiche. Una volta ancora, Linux mi presentava la possibilità di personalizzare l’hardware rilevato, ma sarebbe bastato schiacciare su ‘Avanti’ per accettare le importazioni.

«Visto che il portatile è mio e devo usarlo in ufficio, se non ti dispiace configuro la rete». Cliccò sulla scritta <> come se fosse una pagina Web, e apparve l’elenco delle schede rilevate. Come ogni buon portatile, era provvisto di una Ethernet: Andy la selezionò e nella finestra successiva digitò l’indirizzo IP che avrebbe dovuto assumere la scheda, poi cliccò sul tasto <>. Io continuavo a osservare, e più tardi scoprii che tutte le periferiche si configuravano con la stessa semplicità: schede audio, stampanti locali e di rete, modem.

Dopo che Andy ebbe finito con la scheda di rete, cliccò sul rassicurante tasto <>. La cosa successiva che si presentò fu uno schermo colorato, con varie icone sullo sfondo e una barra dei comandi nella parte bassa: molto simile al mio sistema, ma con tutti i programmi già installati e pronti per essere usati! Andy aveva vinto. Il Linux che mi aveva mostrato due anni fa era diventato qualcosa che non solo era incredibilmente semplice da installare ma aveva anche delle possibilità di personalizzazione notevoli, il tutto presentato con una interfaccia grafica accattivante.

«Non pensare che sia solo SuSE in particolare ad essere così semplice. Anche le altre distribuzioni come RedHat o Mandrake ti presentano le stesse opzioni e hanno bisogno delle stesse informazioni, anche se magari le presentano con una grafica o un ordine differente. Ricorda che indipendentemente dalla distribuzione, si tratta sempre di Linux. E se trovi qualcosa che non funziona come dovrebbe, ricordati dell’evoluzione rapidissima che lo contraddistingue. Linux non è perfetto, ma è certamente un gran sistema. Visto che si affianca automaticamente al tuo Windows senza rovinarlo, puoi benissimo provare senza perdere tutto il lavoro a cui sei abituato».

Ormai ero convinto che l’installazione non fosse affatto così difficile, e valeva la pena provarlo. Così chiesi a Andy dove si comprava Linux e quanto costasse. Lui mi diede i suoi Cd, quelli appena installati sul portatile: «Non te l’avevo ancora detto? Che smemorato! La buona tecnologia non ha prezzo, infatti Linux non costa nulla. Tieni pure i Cd e copiali ai tuoi amici se ti capita». Uscì dalla mia stanza mentre io ravviavo il computer, pronto a esplorare un nuovo mondo.

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