Che cosa fate se il vostro PC decide di schiattare sul più bello? Anche se siete stati prudenti e avete backup a iosa e soldi per correre a comprarne uno nuovo, c’è il piccolo problema che quello nuovo sarà diverso dal precedente e quindi non sarà possibile un semplice restore del sistema operativo. Il nuovo computer avrà driver video e audio diversi, per esempio: occorrerà quindi reinstallare da capo il sistema operativo e i singoli programmi. Vi ricordate i settaggi di ciascun programma? Anche nel migliore dei casi ci vorranno ore. Uno scenario da incubo, che in ossequio alle leggi di Murphy si avvererà immancabilmente quando siete di corsa e avete delle scadenze terribili da rispettare.
Un’altra conseguenza delle leggi di Murphy è che quando avete assoluto bisogno di accedere ai dati presenti sul vostro PC, ne siete sicuramente lontani: siete fuori ufficio oppure semplicemente in vacanza. Quand’anche aveste la previdenza di lasciare i vostri dati su un server protetto online, in modo da potervi accedere da un altro PC, non avreste con voi le vostre applicazioni preferite, configurate nel modo in cui servono al vostro caso specifico. Certo potreste girare con un laptop, ma il laptop costa, pesa, è fragile e fa gola ai ladri, e non è quindi una soluzione molto pratica.
Immaginate di poter risolvere questi due problemi (e molti altri) pagando dieci dollari al mese. In cambio di questo canone, avete un PC sempre disponibile, immune ai ladri, ai guasti e all’obsolescenza. Non dovete portarlo con voi: essendo un PC virtuale, è accessibile da qualsiasi altro computer o dispositivo collegato a Internet e dotato di un browser, quindi anche una console per videogiochi oppure un telefonino. Ovunque siate, potete essere di fronte al vostro desktop grafico abituale, con tutte le applicazioni e i dati che vi servono. Ci lavorate esattamente come se foste davanti a un PC normale. Interessati?
Il trucco c’è, e si vede
Questo è quello che propone Workspot.com: avviate un PC (con Windows, Linux, Mac, Unix, insomma quello che vi pare) e puntate il suo browser (uno qualunque, purché dotato di interprete Java) al vostro “PC virtuale”. In pochi secondi, davanti ai vostri occhi compare un’interfaccia grafica uguale in tutto e per tutto a quella dei computer tradizionali, con una barra delle applicazioni e la freccina del mouse. Cliccando sulla barra delle applicazioni virtuale, dentro il vostro browser partono le applicazioni: word processor, spreadsheet, e-mail, browser, client ftp, visualizzatori di file PDF Acrobat, file manager, programmi di grafica, insomma la normale dotazione di un PC tradizionale. Tutto già configurato e installato, e tutto in modalità grafica e, se avete una linea ADSL o migliore, con tempi di reazione appena superiori a quelli di un PC “reale”.
Una volta superata la sorpresa iniziale di fronte alle prestazioni del servizio, vi accorgerete del trucco: il desktop virtuale è quello di una macchina Linux. Essendo un Linux recente (Red Hat 8), è interamente grafico, per cui non c’è il trauma della riga di comando che è comunque accessibile se vi serve.
Le applicazioni per ufficio sono accorpate in AbiWord e OpenOffice, validi sostituti di Microsoft Office e in gran parte compatibili con i suoi formati; il client di posta è Evolution, un clone migliorato di Outlook; il programma di grafica è Gimp, e l’elenco del software disponibile e preconfigurato non si esaurisce certo qui. Ma sono dettagli trascurabili: l’interfaccia interamente grafica rende la transizione davvero intuitiva e indolore sia per chi viene dal mondo Windows, sia per chi è abituato all’ambiente Mac. Se poi siete linuxiani, siete già di casa (ma non pretendete di diventare root).
La prova del fuoco
La proposta sembra un po’ troppo bella per essere vera. Così ho estratto la carta di credito per pagare un mese di prova e ho lanciato la sfida: scrivere questo articolo usando il PC virtuale di Workspot. Ecco com’è andata.
Mi sono collegato al sito di Workspot tramite ADSL, usando tranquillamente il mio vecchio laptop (un Celeron 600): tanto la potenza di calcolo è quella di Workspot, per cui le prestazioni del mio PC locale sono irrilevanti, purché ci giri un interprete Java. Ho immesso nome utente e password e mi è comparso sullo schermo il desktop di Linux Red Hat 8. Portando il browser a tutto schermo, sembrava di essere a tutti gli effetti davanti a un normale PC Linux.
Cliccando sul cappello rosso (l’equivalente del pulsante Start di Windows) è comparso il menu delle applicazioni, dal quale ho lanciato OpenOffice, alla maniera solita, con il beneficio che OpenOffice, notoriamente non fulmineo nel partire, si è avviato più velocemente di quando lo avvio sui miei PC reali. Interessante.
Iniziando a digitare mi sono accorto di un paio di problemi di Workspot che derivano dal fatto di essere una soluzione tecnologica statunitense: tutto il software è in inglese e Workspot si aspetta la tastiera USA, e non c’è modo di fargli cambiare idea: l’unico rimedio un po’ sgraziato, per la tastiera, è riconfigurare temporaneamente il proprio PC reale in modo che usi la tastiera americana, e digitare le accentate ricorrendo alle solite acrobazie (ALT e tastierino numerico, oppure ricerca e sostituzione a testo finito).
Inoltre non c’è modo di copiare e incollare tra PC virtuale e PC reale, né si può stampare, ma presumo che le versioni successive di Workspot porranno rimedio a queste limitazioni. Già così, comunque, la maggior parte delle attività di un ufficio e dell’utente medio è eseguibile su Workspot.
A parte questo, non sembra proprio di stare interagendo con un programma che si trova dall’altra parte dell’oceano: le lettere compaiono sullo schermo con un ritardo molto modesto e si può selezionare, trascinare, copiare e incollare il testo proprio come in un word processor tradizionale. C’è già preinstallato il controllo ortografico per l’italiano e per molte altre lingue, anche se quello italiano è una vecchia versione molto carente (presso il sito di OpenOffice ce n’è una molto più aggiornata e completa). Anche spreadsheet e grafica sono tranquillamente utilizzabili.
A metà dell’articolo sono andato a un altro computer e ho rifatto login a Workspot. Si è riaperta subito la sessione di scrittura con OpenOffice, nel punto esatto in cui l’avevo lasciata prima di scollegarmi. Fa una certa impressione pensare che il secondo computer poteva trovarsi all’altro capo del mondo e non vi sarebbe stata alcuna differenza. Certo sono cose alle quali i linuxiani sono assuefatti, ma quasi esclusivamente in modalità testo: vedere che tutto funziona graficamente e senza dover installare nulla è davvero un’esperienza notevole.
Come se non bastasse, Workspot consente di condividere il desktop fra più persone: per esempio, invece di spiegare a voce una procedura, la si può mostrare direttamente e in tempo reale, trasferendo il controllo del mouse e della tastiera da un utente all’altro. Un ottimo sistema per l’insegnamento a distanza, insomma.
Una volta terminato l’articolo, ho avviato il client di posta (Evolution, anche lui preconfigurato) e l’ho usato per spedire il testo ad Apogeonline. Semplice, pratico e facile. In altre parole, Workspot ha superato la sfida, sia pure con qualche imperfezione.
Molto più che una demo facile di Linux
È abbastanza strano che Workspot metta al primo posto, fra gli usi del proprio servizio, la possibilità di provare un Linux moderno senza installarlo nel proprio PC. Indubbiamente è di gran lunga il metodo più rapido e indolore per far sperimentare questo sistema operativo open source a chi non può o non vuole mettere mano alla configurazione del proprio computer, e grazie alla funzione di condivisione del desktop consente anche di insegnare Linux a distanza, ma Workspot è molto di più.
Infatti grazie ai 100 megabyte di spazio su disco inclusi nel servizio, Workspot è un vero e proprio computer virtuale sul quale depositare i propri file in modo da averli sempre a disposizione, insieme al software per gestirli, tramite qualsiasi dispositivo collegato a Internet. In sé questa non è una novità assoluta, dato che i desktop remoti esistono da tempo, ma è il fatto di usare una applet Java che distingue Workspot dalla concorrenza: l’uso di Java lo rende indipendente dal sistema operativo, elimina i problemi di installazione e lo renderà subito utilizzabile persino dai cellulari Java, quando sarà disponibile la banda larga dell’UMTS.
I vantaggi di questa virtualizzazione sono particolarmente appetibili sia per l’utente singolo, sia per l’utenza aziendale e governativa. Workspot consente di continuare a usare i PC esistenti anche se le loro prestazioni sono diventate insufficienti per far girare il software odierno, dato che il PC locale fa soltanto da client ed ha un onere di elaborazione modestissimo. Il telelavoro diventa molto più praticabile ovunque ci sia una connessione a banda larga, e il lavoratore si trova lo stesso ambiente sia a casa, sia in ufficio, senza doversi portare in giro dischetti o peggio ancora un computer portatile.
In caso di guasto a un PC, è sufficiente sostituirlo con un qualsiasi altro modello (Mac, Linux o Windows non fa alcuna differenza) e collegarsi al sito di Workspot o a una server farm personalizzata, nel caso di un’azienda o di un’amministrazione pubblica, dove la sessione di lavoro è già pronta esattamente al punto in cui la si era lasciata. Addio reinstallazioni lunghe e dolorose, con conseguenti tempi morti. Inoltre questa soluzione impedisce agli utenti di installare nel sistema informatico aziendale giochini e applicazioni indesiderate e vulnerabili (dal peer-to-peer a Quake), spina nel fianco di tanti amministratori di sistema.
Soprattutto, il software diventa un servizio da pagare a consumo anziché una tantum, con un canone che include manutenzione e backup, proprio come il telefono, per cui diventa molto più semplice gestire il budget informatico. Un’altra spallata ai costi informatici deriva dal fatto di essere indipendenti dalla piattaforma: cambiare fornitore hardware e software è facilissimo e trasparente per l’utente, per cui ci si libera dei monopoli.
Il fatto che Workspot usi Linux anziché un più appetibile Windows non è un caso: un servizio del genere, infatti, con Windows non è fattibile per motivi di licenza e di politica commerciale. Workspot è la materializzazione dei peggiori incubi di Microsoft, quelli in cui il sistema operativo diventa irrilevante grazie a Java e al software remoto. È umanamente comprensibile che Microsoft abbia tentato di sopprimere Java così brutalmente da meritarsi una causa antitrust: si è resa conto del pericolo reale che comporta la sua diffusione.
Vulnerabilità
Passare dal modello distribuito, basato sull’elaborazione svolta sui singoli personal computer, al modello centralizzato in stile Workspot, dove l’elaborazione avviene in un unico centro e gli utenti siedono di fronte a terminali “stupidi” a basso costo e a bassissima manutenzione, comporta dei rischi oltre ai benefici appena elencati.
Come qualsiasi sistema centrale, anche Workspot è infatti particolarmente vulnerabile al centro e lungo le vie di comunicazione. Se cade la rete aziendale, o se Internet annaspa come è successo venerdì scorso a causa di un attacco informatico su vasta scala, si ferma tutto. Invece con gli attuali sistemi distribuiti, se cade la rete si può perlomeno continuare a lavorare localmente, sempre che i dati su cui lavorare non siano situati altrove.
Oltre alla sicurezza c’è anche la questione della riservatezza e della privacy. Usare Workspot e qualsiasi altro servizio remoto analogo significa mettere i propri file personali in mano a chissà chi. È vero che attualmente la maggior parte degli utenti non è comunque in grado di gestire la riservatezza, come testimoniato dalle cartelle cliniche che mi trovo continuamente allegate agli e-mail inviatimi da utenti infetti da virus come il recente Naith/Avril Lavigne, per cui il rischio privacy è probabilmente maggiore adesso, ma chi offre questi servizi dovrà penare non poco per guadagnarsi la fiducia dei clienti.
Fare soldi con Linux
Il modello commerciale di Workspot dimostra infine un concetto che molte società di software grandi e piccole non hanno ancora ben compreso, ossia che si possono comunque fare soldi anche con il software libero e gratuito: basta offrire, accanto al software, la sua manutenzione e la custodia dei dati dell’utente.
Il fatto che il software libero sia più facilmente manutenibile del software commerciale (non fosse altro che per questioni di licenza) e che la formazione e l’assistenza del cliente siano fattibili anche da remoto con soluzioni come Workspot abbatte drasticamente i costi del “software come servizio”.
Viene da chiedersi quali saranno le conseguenze di un servizio che rende irrilevante il sistema operativo così come oggi è irrilevante la marca del rubinetto del gas o dell’acqua. Forse in futuro ci procureremo il software e la potenza di calcolo dai provider anziché gestirceli in proprio come facciamo adesso (cosa che se ci pensate è assurda quanto installare una centrale elettrica in ogni casa). In tal caso, provando Workspot avrete un’anteprima eloquente di come sarà l’informatica prossima ventura, e finalmente avrà senso l’enigmatico slogan di Sun: “la rete è il computer”.