L’8 dicembre 2010 è stata una data molto particolare: negli Stati Uniti si è celebrato un anno dalla Direttiva Obama in materia di open government, atto importantissimo non solo perché costituisce il manifesto di questa nuova prassi amministrativa, ma perché ha fornito un impulso decisivo alla diffusione in numerosi altri Paesi del mondo di modelli amministrativi improntati alla trasparenza, partecipazione e collaborazione con i cittadini. L’anniversario è stato celebrato con una live chat in cui il team della Casa Bianca ha rivendicato i risultati ottenuti in termini di apertura dell’Amministrazione, di risparmi conseguiti e di impulso all’economia dell’immateriale (con più di mille applicazioni create grazie alla liberazione dei dati pubblici), riconoscendo che se molto è stato fatto, la strada da percorrere verso la trasparenza totale è ancora lunga. Per uno strano caso, la ricorrenza è caduta proprio nel periodo del massimo clamore destato dalle rivelazioni di Wikileaks e dalla pubblicazione di documenti (i cosiddetti cablogrammi) contenenti informazioni riservate della diplomazia statunitense. Il fenomeno Wikileaks è stato ritenuto da molti un evento epocale nella storia delle relazioni diplomatiche e del giornalismo, e nell’opinione pubblica si è aperto un vivace e partecipato dibattito intorno alla domanda se Wikileaks sia un bene o un male. Nelle ultime settimane sono in tanti a chiedersi anche se l’operato dell’organizzazione guidata da Assange possa danneggiare l’open government, rallentandone la marcia.
Un boomerang per l’open gov?
Di primo acchito, potrebbe sembrare che le rivelazioni di Wikileaks possano nuocere alla causa del movimento open. Innanzitutto, a essere colpito è proprio il Paese che più di tutti si era fin qui impegnato in strategie di open gov, utilizzando le nuove tecnologie e gli strumenti del Web 2.0 per la gestione della conoscenza e la comunicazione con i cittadini, anche nel settore diplomatico e della difesa. Ora, a causa del Cablogate, tali strategie potrebbero essere gravemente compromesse: come noto, il materiale pubblicato da Wikileaks proviene da un network della difesa americana chiamato Siprnet (ironicamente, Secret Internet Protocol Router Network) nato negli anni ’90 e rivitalizzato dopo l’11 settembre 2001 in modo da consentire la trasmissione di documenti riservati nell’ambito dell’amministrazione statunitense. Vi avevano accesso circa 2 milioni e mezzo di dipendenti federali. Questa fuga di notizie ha sicuramente incrinato la fiducia delle altre diplomazie, ma anche quella dei cittadini, sia in relazione alle scelte effettuate dal Governo sia in relazione all’incapacità di proteggere la riservatezza dei propri dati. La prima risposta dell’Amministrazione americana, ed è comprensibile, è stata quella di avviare un processo che dovrebbe portare alla revisione delle regole di segretezza delle informazioni. Il rischio è che vi sia una marcia indietro, che gli Stati Uniti si chiudano. Non solo: il fenomeno Wikileaks potrebbe rappresentare una facile scusa per tutti coloro che già non vedevano di buon occhio la liberazione dei dati, rafforzando l’inclinazione tipicamente burocratica al controllo delle informazioni.
Wikileaks non è open gov
E invece, a un esame più approfondito, il caso Wikileaks può essere positivo per l’affermazione dell’open government. Sia chiaro: al contrario di quanto ha sostenuto qualcuno, Wikileaks non ha nulla a che vedere con l’open data. Recentemente lo ha spiegato lo stesso Tim Berners-Lee affermando che open government non significa solo pubblicità delle informazioni pubbliche, ma anche partecipazione e collaborazione. Berners-Lee ha poi chiarito che non può parlarsi di trasparenza per Wikileaks, poiché in questo caso si è trattato soltanto di rivelazione di informazioni riservate. La fuga di notizie riservate è fonte del giornalismo investigativo, ma non dell’open government; infatti, un’amministrazione davvero aperta è quella che pubblica spontaneamente i propri dati, intavolando una costante discussione con i cittadini, in modo da sentire quello che hanno da dire per prendere le decisioni più adeguate.
Il cittadino non è un bambino
Tuttavia, quanto accaduto deve indurre i governi, invece che a chiudersi, a essere ancora più trasparenti, adottando proprio strategie di open government. La questione non è tanto se la fuga di informazioni segrete possa mettere in crisi le relazioni tra i Paesi (non sembra essere successo); al contrario, il rischio che si corre nascondendo ai cittadini la realtà sulle situazioni diplomatiche e sulle guerre (che pure pagano e subiscono) è di determinare un’asimmetria informativa, inaccettabile per i regimi democratici. A bene vedere, non è in gioco nemmeno la sicurezza degli Stati (a giudizio dei più, nessuna delle informazioni rivelate ha messo in pericolo la pace mondiale), ma è in discussione il diritto dei cittadini di sapere cosa fa chi li governa, se esista – cioè – un diritto all’accesso anche all’informazione diplomatica. In queste settimane sono stati forniti pareri contrastanti in merito all’eticità e alla legittimità dell’operato di Assange e della sua organizzazione. Ebbene – a prescindere dalla circostanza per cui non risultano azioni giudiziarie intraprese nei confronti di Wikileaks per la pubblicazione dei cablogrammi – la domanda che va posta è la seguente: è legale e eticamente corretto, da parte dei Governi, tenere riservate queste informazioni all’opinione pubblica? Il diritto di accesso all’informazione è ormai riconosciuto dal diritto internazionale e dalle legislazioni di circa 80 Paesi (Stati Uniti inclusi) che – sia pure con diverse gradazioni – attribuiscono ai cittadini il diritto di conoscere cosa fanno i loro governi; questo principio si applica non solo agli affari interni degli Stati, ma anche a quello che fanno a livello internazionale (con le ovvie e limitate esclusioni in materia di sicurezza nazionale).
Vecchia diplomazia
Per questo motivo c’è chi sostiene che sono innanzitutto i Governi che si sono comportati illegalmente (o comunque in modo eticamente non condivisibile), nascondendo non agli altri Stati, ma – soprattutto – alla propria opinione pubblica le informazioni relative alle attività diplomatiche. Il principio cardine di molte legislazioni, che l’open government dovrebbe contribuire a consolidare, è che per le attività di governo la trasparenza è la regola e il segreto l’eccezione. Il feticcio della confidenzialità delle informazioni diplomatiche rappresenta uno degli ultimi fortini burocratici da espugnare; in tanti (tra i sostenitori della segretezza delle informazioni del settore pubblico) ritengono che i cittadini vadano trattati “come bambini” che è meglio non sappiano nulla (come ha scritto Jacques Attali). Al contrario, uno dei principali meriti di Wikileaks consiste nell’aver dimostrato che lo schema delle relazioni internazionali basato sul segreto è nato in un contesto ormai superato (gli Stati del diciannovesimo secolo) e non è più adatto alle nazioni democratiche del ventunesimo secolo in cui la sovranità appartiene ai cittadini, che hanno il diritto di sapere cosa fanno i loro Governi, per loro conto, e di misurarli su questo. È quindi auspicabile che Wikileaks rappresenti la fine della diplomazia, della vecchia diplomazia, a vantaggio di un nuovo modello di relazioni basato sulla trasparenza e sulla fiducia. Infatti è fondato ritenere che se molte informazioni non fossero state occultate, Wikileaks non sarebbe esistito; il Cablogate non rappresenta una patologia, ma al contrario un sintomo del fallimento delle politiche governative di negazione del diritto dei cittadini di essere informati, una risposta creativa alla mancanza di trasparenza.
Trasparenti e sicuri
Il cammino verso la trasparenza totale appare inarrestabile, basti pensare all’evoluzione che le normative in materia hanno avuto nel mondo negli ultimi cinquant’anni; l’esperienza degli ultimi anni, inoltre, ha dimostrato come le nuove tecnologie e la loro sempre maggiore diffusione abbiano determinato una crescita della domanda di trasparenza da parte dei cittadini, domanda che attacchi terroristici e crisi economiche non sono riuscite a fiaccare. Di conseguenza, se i Governi continueranno a custodire gelosamente le informazioni relative al proprio operato, fenomeni come quello di Wikileaks non rimarranno isolati; al contrario, se le Amministrazioni si apriranno realmente, consentendo ai cittadini di verificare quello che fanno è verosimile che saranno apprezzate per quello che di buono hanno fatto e che saranno giustificate per gli errori, accrescendo fiducia e credibilità nelle istituzioni. Un altro aspetto positivo della vicenda Wikileaks è quello di concentrare la riflessione sugli aspetti relativi alla privacy e sicurezza nell’ambito delle strategie di open government; infatti, sostenere la trasparenza non significa che non debbano più esistere informazioni segrete o riservate, come quelle relative ai singoli e alla loro vita privata, alcuni segreti circa le operazioni militari in corso e le attività di sicurezza, le informazioni relative alle trattative con altre diplomazie. Al di fuori di queste ipotesi, però, non devono esservi eccezioni rispetto alla regola generale di trasparenza, anche perché le regole già adottate (anche negli Stati Uniti) pongono molta attenzione sulle cautele da adottare per ridurre al minimo i rischi di diffusione delle informazioni riservate. Perché tutti hanno diritto ad avere qualche segreto, anche gli Stati, ma i Governi non hanno più il diritto di tenere tutto segreto.