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Web Community: l’impero dei segni

20 Novembre 2000

Web Community: l’impero dei segni

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Le comunità virtuali sono grandi macchine di costruzione del discorso, dove l'aggregazione dei "surfer" è resa possibile dallo scambio ridondante dei codici, che si vogliono ipertestuali e plurimi proprio nel momento in cui asseriscono la loro riconducibilità all'unico, al punctum della community.

Dal punto di vista della lingua, il segno è come una moneta: questa moneta vale per un certo bene che essa permette di acquistare, ma vale anche in rapporto ad altre monete, di valore maggiore o minore.
Roland Barthes

Lincoln Center, NYC

New York, alla fine di agosto, è charmante come solo questa città sa essere in autunno. Sul palco allestito al Lincon Center la fila dei dodici danzatori afro si apre, a formare due ali distinte nell’intenzione, poi, di disporsi a cerchio. Non ancora un cerchio, non più un quadrato, i danzatori (si) organizzano lo spazio della scena. La danza (il discorso) non segue l’improvvisazione, e, d’altro canto, non ancora una coreografia: le azioni sulla scena non sono né tutte possibili, né stabilite.

Web community: the more you sell, the more you sell

Accettato che nessuna economia si basa sulla sovrabbondanza, ma solo sulla scarsità, ne consegue che la così detta “Web economy” non è costruita sulle informazioni, sovrabbondanti e spesso gratuite, ma sull’attenzione (risorsa assai rara) che i websurfer prestano alle informazioni.

Le strategie di marketing digitale delle virtual community, dunque, cercano di portare i surfer a visitare il proprio sito Web (cercano cioè di “creare traffico”) e guadagnare la famosa soglia della “massa critica” per potere poi generare profitti, secondo il modello economico definito da Hagel e Armstrong degli increasing returns.

Semplificandolo di molto, questo modello si basa sull’incorporare la produzione del valore dell’impresa dal lato dell’utente (power shift, nelle parole di Hagel e Armstrong), attraverso due suoi apporti chiave:

  • la frequentazione attiva della communtity
  • la produzione di contenuti

La logica è, in estrema sintesi, la seguente: il sito attrae utenti grazie alla sua capacità di rendersi prossimo, vicino ad essi; gli utenti ricambiano con la fedeltà al sito e dunque la produzione di contenuti (in quanto posti nella condizione di parlare da pari a pari con altri utenti/membri). La comunità, infine, ha la possibilità di capitalizzare l’apporto dei suoi utenti riorganizzandoli in un grande soggetto della domanda e diventando così infomediary, intermediario di informazioni (e, dunque, nei business plan delle community, acquisti) per quella comunità di utenti.

In questo schema il successo di pubblico (ed economico, èa va sans dire) è dovuto non tanto ad investimenti ingenti in tecnologie, ma alla capacità di attrarre utenti disposti a diventare da frequentatori a co-maker attivi della community stessa che ha successo quando riesce a dispiegare della attività tali da coinvolgere sempre di più i suoi utenti/membri/co-maker, che pone al centro del suo marketing.

Dall’ipertesto al macrotesto?

La comunità, dunque, dispiega il suo armamentario digitale per dare la parola agli utenti, mediante tutti canali possibili (mail, chat, Web page personali, forum, sondaggi, giochi…), come una gigantesca macchina (fabbrica?) per la costruzione del discorso e, contemporaneamente, la stessa parola data viene presa in custodia, come fatto fondante dell’esistenza della community che, in quanto fabbrica, è soggetta al codice dell’autore – proprietario, ineffabilmente a priori (lo fonda) di ogni discorso, per definizione.

L’autore (e l’autorevolezza) del sito (la struttura del discorso) resta sempre a monte, è dato, ex ante.
L’adesione al codice dell’autore (alla comunità) è ciò che ci rende compilatori del suo codice (privato, perché toltoci), ineffabilmente anteriore alle possibilità del discorso: dal momento che la produzione di senso si esaurisce nella fabbricazione di consenso, quest’ultimo falsifica la promessa capacità di costruzione di un discorso autonomo da parte dell’utente/cliente/membro (discorso che in rete si vorrebbe ipertestuale per statuto, letteralmente associativo), finendo per innescare, del tutto conseguente, il collasso delle strutture associative, schiacciate sotto il peso del codice dell’auctor del sito, inevitabilmente sintagmatico, fondato su un momento zero, progettato, da cui si dipana.

Una volta crollate le strutture associative, e prevalendo quelle sintagmatiche, l’architettura del discorso si impoverisce, l’ipertesto precipita in una sorta di macrotesto, che non è altro che il groviglio del discorso, completando l’iter che partendo (dalla promessa) del complesso giunge al complicato.
In questo senso il macrotesto è tutto ciò che resta dell’ipertesto, quando emerga un proprietario del codice attorno al quale si è sviluppato: il macrotesto è il prodotto (di nome e di fatto) del Primo Testo, anteriore, inscalfibile.

Un testo di cui possiamo arricchire la quantità, aggiungendone, ma non operare: ogni messaggio è buono perché rafforza il codice, il discorso anteriore.
I soli messaggi che si distinguono, appena, sono quelli che lo lodano.

Se la struttura dell’ipertesto promette la liberazione – almeno per chi scrive, salutare – dall’aura dell’auctor, senza per questo perdere di autoralità, di autorevolezza sì, il macrotesto la nega.
L’ipertesto, come possibilità di svolgere il discorso grazie al sistema, viene sigillato nel buco nero del Primo Testo, che riconduce tutto alla portata sintagmatica del discorso, alla sua planarità priva di spaesamenti, rendendo evidente che, in effetti, accettare l’offerta di proferire parola da parte dell’auctor della community ha un prezzo: la rinuncia al corpo (come stile, incuneato tra sistema e testo).
Il consenso all’autore è una benedizione di fantasmi, in assenza.

Un modesto contributo a favore del discorso, en passant.

A high density field: a place where a rich source of original experience can be gained, an environment in which frequent and intensive interactions among members take place.
Nonaka e Takeuchi

Cambiamo prospettiva e riportiamo al centro della struttura del discorso il corpo, capace come tale di produrre il testo attraverso la conoscenza, inteso come package di sapere ed esperienza.
Cosa otteniamo? Certo non una Web community, almeno così come si sono venute formando, ma un knowledge field, un campo autenticamente dinamico, senza proprietari a priori del discorso, dove il senso viene prodotto sincronicamente dagli occupanti del campo (di passaggio, alla lettera) e si coglie nell’assieme raccogliendone il valore che si produce tra pari sul sistema (ipertestuale), negli istanti.

Questo campo non aggrega, non produce senso (come consenso) ma ne permette il fluire, lo attualizza: è l’enabler dello scambio del discorso dei suoi occupanti. Il campo è un viaggio, dove la community è una città. (in questo senso non si può fare a meno di pensare che la community sia il prodotto dell’Internet “statica”, fruita cioè da una postazione fissa, mentre il campo possa essere il prodotto di un’Internet abitata da soggetti mobili).

Anche l’online marketing cambierebbe: essendoci solo passanti, alla lettera, cui prestare e chiedere attenzione, finirebbe per produrre un modesto contributo a favore del discorso, come si conviene, en passant.

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