Potrebbe essere già nata la prima persona che vivrà mille anni
Come ho scritto nel mio libro sull’estensione della vita, Transcend, siamo nelle ultime fasi della prima generazione per l’estensione della vita, che comportano l’applicazione dell’attuale classe di prodotti farmaceutici e l’attuale conoscenza nutrizionale per superare le sfide della salute. Si tratta di un processo in evoluzione che applica costantemente nuove idee, ed è la base per il regime che ho seguito negli ultimi decenni per la mia salute.
Negli anni Venti stiamo iniziando la seconda fase dell’estensione della vita, che è rappresentata dalla fusione di biotecnologia e AI e che comporterà lo sviluppo e la sperimentazione di trattamenti innovativi nei simulatori biologici digitali. I primi passi sono stati già fatti, e con queste tecniche saremo in grado di scoprire nuove terapie molto efficaci nell’arco di giorni invece che di anni.
Con gli anni Trenta avrà inizio la terza fase dell’estensione della vita, che sarà l’uso della nanotecnologia per superare completamente i limiti dei nostri organi biologici. Quando entreremo in questa fase, allungheremo di molto la nostra vita, e le persone potranno superare il normale limite umano dei 120 anni.
Solo di una persona, Jeanne Calment (una francese che è vissuta fino a 122 anni) si sa che ha superato i 120 anni. Perché questo è un limite rigido per la longevità umana? Si potrebbe ipotizzare che i motivi per cui le persone non superano quell’età siano statistici: le persone anziane devono affrontare ogni anno un certo rischio di Alzheimer, ictus, attacchi di cuore o tumore e, dopo un numero sufficiente di anni in cui sono esposte a quei rischi, tutte alla fine muoiono di qualcosa. Ma non è quello che accade. I dati attuariali mostrano che, fra i 90 e i 110 anni, le probabilità che una persona muoia l’anno successivo aumentano ogni anno di circa 2 punti percentuali. Per esempio, negli Stati Uniti un uomo di 97 anni ha circa un 30 percento di probabilità di morire prima dei 98, e se arriva a quell’età avrà un 32 percento di probabilità di morire prima dei 99. Dai 100 anni in su, però, il rischio di morte aumenta di circa il 3,5 percento all’anno.
Cedimento infrastrutturale
I medici hanno offerto una spiegazione: intorno ai 110 anni, il corpo delle persone più anziane inizia a disintegrarsi in modi qualitativamente diversi rispetto ai processi di invecchiamento delle persone anziane più giovani. Per gli ultracentenari (dai 110 anni in là) l’invecchiamento non è semplicemente una continuazione o un peggioramento degli stessi tipi di rischi statistici della tarda età adulta. Mentre le persone a quell’età hanno ogni anno un rischio di malattie comuni (anche se il peggioramento di quei rischi può decelerare nelle persone molto anziane) devono affrontare in più nuove difficoltà, come disfunzioni renali e problemi respiratori, che spesso sembra si verifichino spontaneamente, non cioè come conseguenza di fattori dello stile di vita o per l’insorgere di qualche malattia: a quanto pare, l’organismo inizia semplicemente a cedere.
Nell’ultimo decennio, scienziati e investitori hanno iniziato a prestare molta più attenzione alla ricerca del perché. Uno dei principali ricercatori in questo campo è il biogerontologo Aubrey de Grey, fondatore della fondazione LEV (Longevity Escape Velocity). Come spiega de Grey, l’invecchiamento è come il logoramento del motore di un’automobile, danni che si accumulano in conseguenza del normale funzionamento del sistema. Nel caso dell’organismo umano, quel danno deriva in gran parte da una combinazione di metabolismo cellulare (l’uso dell’energia per rimanere in vita) e riproduzione cellulare (i meccanismi di autoreplicazione). Il metabolismo crea materiali di scarto nelle cellule e intorno a esse e danneggia le strutture per ossidazione (un processo simile alla ruggine per un’automobile).
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Quando siamo giovani, il nostro organismo è in grado di eliminare il materiale di scarto e di riparare i danni in modo efficace; con l’avanzare dell’età, la maggior parte delle nostre cellule continua a riprodursi e gli errori si accumulano. Alla fine, i danni cominciano ad accumularsi con una velocità superiore a quella con cui l’organismo può porvi rimedio.
In una persona che ha superato i settanta, gli ottanta o i novanta, quei danni probabilmente causeranno un problema fatale molto tempo prima di causarne diversi. Se perciò la scienza sviluppa un farmaco per trattare con successo un tumore altrimenti fatale in una persona di ottanta anni, quella persona potrà aspettarsi di vivere quasi altri dieci anni prima che qualcos’altro la uccida. Alla fine però tutto inizia a cedere contemporaneamente e non è più efficace trattare i sintomi del danno causato dall’invecchiamento. I ricercatori della longevità sostengono invece che l’unica soluzione è curare l’invecchiamento stesso. La SENS (Strategies for Engineered Negligible Senescence) Research Foundation ha proposto un programma di ricerca dettagliato per come raggiungere questo obiettivo (anche se certamente ci vorranno decenni per raggiungerlo a pieno).
In poche parole, abbiamo bisogno della capacità di riparare i danni dovuti all’invecchiamento a livello delle singole cellule e dei tessuti locali. Si stanno esplorando varie possibilità, ma credo che la soluzione ultima più promettente siano nanorobot in grado di entrare nell’organismo e di eseguire direttamente le riparazioni. Questo non renderà le persone immortali: potremo ancora morire a causa di incidenti e infortuni, ma il rischio di morte non aumenterà più di anno in anno con l’avanzare dell’età, perciò molte persone potranno vivere oltre i 120 anni in buona salute.
Prima che possiamo immaginare
Per ottenerne dei benefici, non dovremo aspettare che queste tecnologie raggiungano la piena maturità. Se possiamo vivere abbastanza a lungo perché le ricerche anti-invecchiamento inizino ad aggiungere almeno un anno alla nostra aspettativa di vita rimanente ogni anno, questo ci farà guadagnare abbastanza tempo perché la nanomedicina arrivi a curare gli aspetti rimanenti dell’invecchiamento. Questa è la velocità di fuga della longevità. È il motivo per cui c’è una logica sensata alla base della dichiarazione sensazionale di Aubrey de Grey, per cui la prima persona che vivrà mille anni probabilmente è già nata. Se la nanotecnologia del 2050 risolverà abbastanza problemi dell’invecchiamento perché le persone di 100 anni inizino a vivere fino a 150, avremo tempo fino al 2100 per risolvere qualsiasi nuovo problema possa presentarsi a quell’età. A quel punto l’AI avrà un ruolo fondamentale nella ricerca e i passi avanti in quell’arco di tempo saranno esponenziali. Anche se queste proiezioni sono sicuramente sorprendenti e anche se suonano assurde per il nostro pensiero intuitivo lineare, abbiamo buoni motivi per considerarle un futuro probabile.
Nel corso degli anni ho avuto molte conversazioni sul tema dell’estensione della vita, e l’idea spesso incontra resistenze. Le persone rimangono sconvolte quando sentono di qualcuno la cui vita è stata stroncata da una malattia, ma, di fronte alla possibilità di estendere in generale ogni vita umana, reagiscono negativamente. La vita è troppo difficile per immaginare che continui indefinitamente, è una risposta comune. In generale però nessuno vuole concludere la propria vita in qualsiasi momento, a meno che non stia soffrendo enormemente, fisicamente, mentalmente o spiritualmente. Se dovesse assorbire i miglioramenti continui della vita in tutte le sue dimensioni, come abbiamo analizzato nel Capitolo 4, la maggior parte di quelle sofferenze verrebbe alleviata. Estendere la vita umana, cioè, significherebbe anche migliorarla enormemente.
Per immaginare come l’estensione della vita ne migliori anche la qualità, può essere utile ripensare a un secolo fa. Nel 1924 l’aspettativa di vita negli Stati Uniti era di 58,5 anni in media, perciò una persona nata in quell’anno poteva aspettarsi, statisticamente, di morire nel 1982. Durante quel periodo, però, la medicina ha compiuto tali passi avanti che molte di quelle persone sono vissute fino agli anni 2000 o 2010. Grazie a questa estensione della vita, hanno potuto godersi la pensione in un’epoca in cui i viaggi aerei erano a buon mercato, le auto erano più sicure e avevano a disposizione la televisione via cavo e Internet. Per chi nasce nel 2024, i passi avanti tecnologici nel corso degli anni che verranno aggiunti alla loro vita saranno esponenzialmente più rapidi di quelli del secolo precedente. Oltre a quegli enormi vantaggi materiali, potranno godere di una cultura più ricca – tutta l’arte, la musica, la letteratura, la televisione e i videogiochi creati dall’umanità nel corso di quegli anni in più. Quello che forse è ancora più importante è che potranno godere di più tempo con familiari e amici, amando ed essendo amati. Tutto questo, secondo me, è ciò che dà alla vita il suo significato più grande.
In che modo, però, la nanotecnologia lo renderà effettivamente possibile? Per come la vedo io, l’obiettivo di lungo termine sono nanobot medici. Saranno fatti di parti in diamantoide e avranno a bordo sensori, manipolatori, computer, unità di comunicazione, forse anche riserve di energia. Intuitivamente, si immaginano i nanobot come minuscoli sottomarini robotici di metallo che navigano lungo il flusso sanguigno, ma la fisica della nanoscala richiede un approccio sostanzialmente diverso. A quella scala, l’acqua è un solvente potente e le molecole di ossidante sono fortemente reattive, perciò saranno necessari materiali robusti come il diamantoide.
Mentre i sottomarini alla scala macro possono muoversi tranquillamente nei liquidi, per gli oggetti a nanoscala la dinamica dei fluidi è dominata da forze di attrito tremende. Provate a immaginare di nuotare nel burro d’arachidi! I nanobot, perciò, dovranno basarsi su principi di propulsione diversi e probabilmente non potranno neanche avere a bordo abbastanza energia o potenza di calcolo da svolgere in modo indipendente tutti i loro compiti, perciò dovranno essere progettati in modo da poter ricavare energia dall’ambiente circostante e da obbedire a segnali di controllo esterni oppure da collaborare fra loro per eseguire la computazione.
Quanti nanobot servono
Per manutenere il nostro organismo e contrastare altrimenti i problemi di salute, avremo bisogno di un enorme numero di nanobot, ciascuno delle dimensioni di una cellula. Le stime migliori disponibili dicono che il corpo umano è costituito da varie decine di migliaia di miliardi di cellule biologiche. Se potenzieremo noi stessi anche con un solo nanobot ogni cento cellule, vuol dire che dovremo avere ciascuno varie centinaia di miliardi di nanobot. Resta da vedere, comunque, quale sia il rapporto ottimale. Potrebbe darsi il caso che, per esempio, nanobot perfezionati possano essere efficaci anche con un rapporto fra cellule e nanobot di vari ordini di grandezza superiore.
Uno degli effetti principali dell’invecchiamento è il degrado delle performance degli organi, perciò uno dei ruoli fondamentali che avranno questi nanobot sarà quello di ripararli e aumentarli. Oltre a espandere la nostra neocorteccia, questo comporterà principalmente aiutare gli organi non sensoriali a immettere sostanze in modo efficiente nel flusso sanguigno (o nel sistema linfatico), oppure a rimuoverle. I polmoni, per esempio, immettono ossigeno ed estraggono anidride carbonica, il fegato e i reni eliminano tossine, tutto il tratto digestivo immette nutrienti nel flusso sanguigno e vari organi come il pancreas producono ormoni che controllano il metabolismo. Variazioni nei livelli ormonali possono avere come conseguenza malattie come il diabete. (Esistono già dispositivi che possono misurare i livelli dell’insulina nel sangue e possono trasferire insulina nel flusso sanguigno, un po’ come fa un vero pancreas). Monitorando la disponibilità di queste sostanze vitali, regolandone i livelli secondo necessità e manutenendo le strutture degli organi, i nanobot possono conservare in buona salute indefinitamente il corpo di una persona. Alla fine, i nanobot saranno in grado di sostituire completamente gli organi biologici, se necessario o desiderato.
I nanobot però non si limiteranno a preservare il normale funzionamento dell’organismo, ma potranno essere utilizzati anche per regolare le concentrazioni di varie sostanze nel sangue, mantenendole a livelli ottimali, meglio di quanto avverrebbe normalmente. Gli ormoni potranno essere manipolati per darci più energia e focalizzazione, o per accelerare le capacità naturali dell’organismo per risanarsi e ripararsi. Se l’ottimizzazione degli ormoni potesse rendere più efficace il nostro sonno, sarebbe in effetti una estensione della vita dalla porta di servizio. Se dall’avere bisogno di otto ore di sonno a notte passaste ad aver bisogno di solo sette ore, alla vostra esistenza di veglia si aggiungerebbero, per una vita media, cinque anni di vita in più!
Alla fine, l’impiego di nanobot per la manutenzione e l’ottimizzazione dell’organismo dovrebbe addirittura prevenire l’insorgere di malattie gravi. Ovviamente, ci sarà probabilmente un periodo in cui i nanobot saranno disponibili ma non tutti li avranno già utilizzati a questo scopo, perciò condizioni come i tumori dovranno essere affrontate dopo essere state già diagnosticate.
In parte la difficoltà che si incontra nell’eliminare i tumori è dovuta al fatto che ogni cellula tumorale ha la capacità di autoreplicarsi, perciò è necessario eliminare ogni singola cellula. Anche se il sistema immunitario spesso è in grado di controllare le primissime fasi della divisione delle cellule tumorali, non appena si stabilisce, un tumore può sviluppare una resistenza alle cellule immunitarie dell’organismo. A quel punto, anche se un trattamento distrugge la maggior parte delle cellule tumorali, quelle che sopravvivono possono iniziare a sviluppare nuovi tumori. Fra queste pericolose sopravvissute è particolarmente probabile che vi sia una sottopopolazione di cellule, chiamate cellule staminali tumorali.
Un server genetico
Anche se l’oncologia ha compiuto passi avanti straordinari nell’ultimo decennio e potrà compierne altri, ancora più grandi, con l’aiuto dell’AI nel corso di questo decennio, stiamo usando ancora strumenti relativamente spuntati. La chemioterapia spesso non riesce a eradicare completamente i tumori e provoca seri danni collaterali ad altre cellule non tumorali in tutto il corpo. Non solo questo dà effetti collaterali brutali per molti pazienti, ma indebolisce anche il sistema immunitario e lo rende più vulnerabile ad altri rischi sanitari. Anche le immunoterapie più avanzate e i farmaci mirati non raggiungono una efficacia e una precisione complete. I nanobot medici invece potranno esaminare ogni singola cellula e stabilire se è tumorale o meno, e poi distruggere tutte quelle maligne. Ripensate all’analogia con il meccanico e l’automobile all’inizio del capitolo. Una volta che i nanobot potranno riparare o distruggere selettivamente cellule singole, domineremo completamente la nostra biologia e la medicina diventerà la scienza esatta che da molto tempo aspirava a essere.
Il raggiungimento di questo traguardo comporterà anche un controllo completo sui nostri geni. Nel loro stato naturale, le cellule si riproducono copiando il DNA nel proprio nucleo. Se esiste un problema con la sequenza del DNA in un gruppo di cellule, non c’è modo di affrontarlo senza aggiornarla in ogni singola cellula. Questo è un vantaggio negli organismi biologici non migliorati, perché è improbabile che le mutazioni casuali nelle singole cellule provochino un danno fatale per l’intero organismo. Se qualsiasi mutazione in una qualsiasi cellula del nostro corpo venisse copiata istantaneamente in ogni altra cellula, non potremmo sopravvivere. La robustezza decentrata della biologia, però, costituisce una difficoltà importante per una specie (come la nostra) che può modificare piuttosto bene il DNA di singole cellule, ma non padroneggia ancora la nanotecnologia per modificare efficacemente il DNA in tutto l’organismo.
Se invece il codice del DNA di ciascuna cellula fosse controllato da un server centrale (come accade per molti sistemi elettronici), sarebbe possibile modificare quel codice semplicemente aggiornandolo da lì. Per poterlo fare, dovremmo aumentare il nucleo di ciascuna cellula con una controparte nanoingegnerizzata, un sistema che riceverebbe il codice del DNA dal server centrale e poi produrrebbe una sequenza di amminoacidi da quel codice. Uso il termine server centrale qui come una denominazione sintetica per un’architettura broadcast più centralizzata, ma questo probabilmente non significa che ogni nanobot debba ottenere le istruzioni direttamente da un solo computer in senso letterale. Le sfide fisiche dell’ingegneria a nanoscala alla fine potrebbero determinare che sia preferibile un sistema broadcast più localizzato. Ma anche se ci fossero centinaia o migliaia di unità a microscala (anziché a nanoscala) collocate in varie parti del nostro organismo (che sarebbero abbastanza grandi per avere comunicazioni più complesse con un computer di controllo generale), questa sarebbe una centralizzazione superiore di vari ordini di grandezza rispetto allo status quo: decine di migliaia di miliardi di cellule che funzionano in modo indipendente.
Le altre parti del sistema della sintesi proteica, come il ribosoma, potrebbero essere potenziate nello stesso modo. Così potremmo semplicemente disattivare il DNA malfunzionante, che sia responsabile di un tumore o di disturbi genetici. Il nanocomputer che mantiene questo processo implementerebbe anche gli algoritmi biologici che governano l’epigenetica, cioè il modo in cui i geni sono espressi e attivati. Agli inizi degli anni Venti, abbiamo ancora molto da imparare sull’espressione dei geni, ma l’AI ci consentirà di simularla con una quantità di dettagli sufficiente perché i nanobot riescano a regolarla con precisione, quando la nanotecnologia sarà matura. Con questa tecnologia saremo in grado anche di prevenire e invertire l’accumulo di errori di trascrizione del DNA, che sono una delle cause principali dell’invecchiamento.
I nanobot saranno utili anche per neutralizzare minacce urgenti all’organismo, distruggendo batteri e virus, sospendendo reazioni autoimmunitarie o ripulendo arterie ostruite. In effetti, una ricerca recente condotta a Stanford e alla Michigan State University ha già creato una nanoparticella che individua i monociti e i macrofagi che causano la placca aterosclerotica ed elimina quelle cellule. Nanobot intelligenti saranno enormemente più efficaci. Inizialmente questi trattamenti saranno avviati dagli esseri umani, ma alla fine saranno svolti in modo autonomo; i nanobot eseguiranno le relative attività da soli e le comunicheranno (attraverso un’interfaccia AI di controllo) agli esseri umani che ne effettuano il monitoraggio.
Trasfusioni di nanobot
Man mano che l’AI guadagnerà una maggiore capacità di comprendere la biologia umana, sarà possibile inviare nanobot per affrontare problemi a livello cellulare, molto prima che siano rilevabili dai medici di oggi. In molti casi questo consentirà la prevenzione di condizioni che nel 2023 rimangono inspiegate. Oggi, per esempio, circa il 25 percento delle ischemie è criptogeno, cioè non ha una causa rilevabile, ma sappiamo che ci deve essere un motivo per cui avvengono. Nanobot che pattugliano il flusso sanguigno potrebbero rilevare piccole placche o difetti strutturali che rischiano di creare coaguli che causano ictus, distruggere i coaguli in formazione o lanciare l’allarme se si sta preparando silenziosamente un ictus.
Come nel caso dell’ottimizzazione ormonale, però, i nanomateriali ci consentiranno non solo di ripristinare il normale funzionamento dell’organismo, ma anche di aumentarlo oltre quello che è possibile con la nostra sola biologia. Robustezza e velocità dei sistemi biologici sono limitate, perché questi sistemi devono essere costruiti partendo dalle proteine e, anche se le proteine sono tridimensionali, devono essere ripiegate a partire da una stringa monodimensionale di amminoacidi. I nanomateriali ingegnerizzati non avranno questo limite. Nanobot costruiti con ingranaggi e rotori di diamantoide sarebbero migliaia di volte più veloci e più robusti dei materiali biologici, e sarebbero progettati sin dall’inizio per dare prestazioni ottimali.
Grazie a questi vantaggi, perfino la nostra scorta di sangue potrebbe essere sostituita da nanobot. Un progetto di Robert A. Freitas (copresidente per la nanotecnologia della Singularity University, di cui è uno dei fondatori), il respirocita, è un globulo rosso artificiale. Secondo i calcoli di Freitas, una persona con respirociti nel flusso sanguigno potrebbe trattenere il fiato per circa quattro ore. Oltre a cellule artificiali del sangue, alla fine saremo in grado di progettare polmoni artificiali per ossigenarle con maggiore efficienza rispetto al sistema respiratorio che la biologia ci ha dato. Alla fine, anche cuori fatti di nanomateriali renderanno le persone immuni agli infarti e renderanno molto più raro l’arresto cardiaco dovuto a un trauma.
I nanobot consentiranno alle persone anche di modificare il proprio aspetto come mai in precedenza. Già è possibile personalizzare liberamente il proprio avatar in ambienti digitali come chat room e giochi di ruolo online e le persone usano spesso questa possibilità come un mezzo per esprimere creatività e personalità. Oltre a poter fare scelte relative al proprio aspetto e al proprio abbigliamento, le persone possono incarnare personaggi virtuali di età, genere e addirittura specie diversi dai propri. Resta da vedere quanto questo potrà essere trasportato nella vita reale, quando la nanotecnologia darà la possibilità di personalizzare radicalmente il proprio corpo fisico. Sarà comune apportare cambiamenti cosmetici radicali nella realtà come lo è attualmente nei giochi? O forze psicologiche e culturali renderanno più prudenti le persone in queste scelte?
Il ruolo più importante della nanotecnologia nel nostro organismo, però, sarà quello di potenziare il cervello, che alla fine diventerà per più del 99,9 percento non biologico. Questo potrà accadere seguendo due distinti percorsi. Uno è l’introduzione graduale di nanobot nel tessuto cerebrale stesso, che potranno essere utilizzati per riparare danni o sostituire neuroni che hanno smesso di funzionare. L’altro consiste nel connettere il cervello a computer, e questo contemporaneamente ci darà la capacità di controllare le macchine direttamente con il pensiero e ci permetterà di integrare strati digitali di neocorteccia nel cloud. Ci darà molto più che una memoria migliore o una facoltà di pensiero più veloce.
Vite extracorporee
Una corteccia virtuale più profonda ci darà la capacità di formulare pensieri più complessi e astratti di quelli che oggi possiamo comprendere. Per fare un esempio che può dare una pallida idea, immaginate di poter visualizzare in modo chiaro e intuitivo forme di dieci dimensioni, e di poter ragionare su quelle forme in modo altrettanto intuitivo. Questo tipo di facoltà sarà possibile in molti ambiti della cognizione. Per fare qualche confronto, la corteccia cerebrale (che è costituita principalmente dalla neocorteccia) possiede una media di 16 miliardi di neuroni in un volume pari all’incirca a mezzo litro.
Il progetto di Ralph Merkle per un sistema di calcolo meccanico a nanoscala potrebbe in teoria far stare oltre 80 trilioni di porte logiche nella stessa porzione di spazio. Il vantaggio in termini di velocità sarebbe poi enorme: la velocità di commutazione elettrochimica di un neurone di mammifero probabilmente è in media nell’ordine di grandezza di una volta al secondo, rispetto probabilmente a circa 100 milioni o un miliardo di cicli al secondo per la computazione nanoingegnerizzata. Anche se nella pratica fosse ottenibile solo una minuscola frazione di quei valori, è chiaro che una tecnologia del genere consentirà alle parti digitali del nostro cervello (conservate in substrati di computazione non biologici) di superare enormemente per numero e prestazioni quelle biologiche.
Ho stimato che la computazione all’interno del cervello umano (al livello dei neuroni) sia nell’ordine di 1014 operazioni al secondo. Nel 2023, 1.000 dollari di potenza di calcolo possono eseguire fino a 130.000 miliardi di computazioni al secondo. In base alla tendenza degli anni 2000-2023, nel 2053 circa 1.000 dollari di potenza di calcolo (in dollari del 2023) saranno sufficienti per eseguire un numero di computazioni al secondo circa 7.000.000 di volte superiore a quello possibile per il cervello umano non potenziato. Se, come sospetto, si darà il caso che solo una parte dei neuroni del cervello sia necessaria per digitalizzare la mente conscia (per esempio, se non è necessario simulare le azioni di molte cellule che governano altri organi del corpo), questo punto potrebbe essere raggiunto parecchi anni prima. E anche se si scoprisse che per digitalizzare la nostra mente cosciente è necessario simulare ogni proteina in ogni neurone (cosa che penso improbabile), ci potrebbero volere solo pochi decenni in più per raggiungere lo stesso livello di accessibilità, ma sarebbe ancora qualcosa che accadrebbe nel corso della vita di molte persone già vive oggi. In altre parole, poiché questo futuro dipende da tendenze esponenziali fondamentali, anche se modifichiamo di molto le nostre ipotesi sulla facilità con cui sarà possibile digitalizzare noi stessi, la data in cui questo traguardo verrà raggiunto non cambia drasticamente.
Negli anni Quaranta e Cinquanta ricostruiremo il nostro corpo e il nostro cervello per andare enormemente oltre quello di cui è capace la nostra biologia, compresi il nostro backup e la nostra sopravvivenza. Con il decollo della nanotecnologia, saremo in grado di produrre un corpo ottimizzato a piacere: potremo correre molto più velocemente e più a lungo, nuotare e respirare nel profondo dell’oceano come pesci, e addirittura dotarci di ali funzionanti, se le vorremo. I nostri pensieri saranno milioni di volte più veloci, ma, e questo è della massima importanza, non saremo dipendenti dalla sopravvivenza di uno dei nostri corpi perché i nostri sé sopravvivano.
Questo articolo richiama contenuti da La singolarità è più vicina.
Immagine di apertura originale di Slav Romanov su Unsplash.