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«Viacom-YouTube, applicata la legge»

09 Luglio 2008

«Viacom-YouTube, applicata la legge»

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YouTube dovrà pagare un miliardo di dollari a Viacom, ma soprattutto dovrà rendere noti i dati di navigazione dei suoi utenti. Come va interpretata la sentenza Usa che tanto ha fatto discutere? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Mazziotti, esperto di diritto delle nuove tecnologie

Giuseppe Mazziotti, 32 anni, avvocato, esperto di diritto d’autore e diritto delle nuove tecnologie, autore della monografia EU Digital Copyright Law and the End-User (Springer, 2008). A lui chiediamo: che cosa stabilisce questa sentenza?

Prima di tutto occorre chiarire che quella della Corte Distrettuale di New York non è una sentenza di primo grado ma è a tutti gli effetti quello che in italiano definiremmo un giudizio cautelare. Si tratta unicamente di un accertamento della domanda fatta in via d’urgenza da alcuni titolari di diritti d’autore, che si ritengono danneggiati dall’utilizzo delle loro creazioni: trasmissioni televisive, film e partite di calcio (compare infatti tra gli attori, al fianco di Viacom, anche la Premier League britannica). La sentenza, datata 1 luglio 2008, il cui testo integrale è scariabile dal sito della Electronic Frontier Foundation, prende atto di come buona parte del materiale video caricato su YouTube dagli utenti sia costituito da video non generati dagli utenti ma attribuibili a terze parti.

La domanda degli attori era piuttosto ampia e volta a costringere YouTube a implementare tecnologie in grado di impedire l’upload di materiale protetto dal diritto d’autore. La pretesa degli attori, dunque, era sì quella di far riconoscere l’illiceità di queste pratiche, che è abbastanza evidente, ma anche di dimostrare che tale tecnologia, utilizzata in buona parte per violare il diritto d’autore, è passibile di modifiche che la possano rendere, sotto questo aspetto, meno pericolosa.

Una sorta di filtro, dunque, che impedisca l’upload di contenuti protetti.

Esatto. C’è da dire che YouTube, con opportuni disclaimer, mette in guardia gli utenti riguardo al fatto che l’upload di contenuti protetti è illegale. Tuttavia queste clausole non hanno l’effetto di liberare il proprietario dell’infrastruttura da responsabilità indiretta. Ciò che gli attori chiedevano era qualcosa di più di un semplice disclaimer: la creazione di una vera e propria task-force di esperti che potessero dedicarsi a tempo pieno allo sviluppo di tecnologie in grado di filtrare i contenuti non autorizzati.

Questa richiesta è stata soddisfatta?

No. Il giudice si è mantenuto tecnologicamente neutrale. Negli Stati Uniti i giudici sono molto accorti, si rendono conto di non essere forse i soggetti più adatti a intervenire in ambito tecnologico. Quando si tratta di valutare l’utilizzo di tecnologia i giudici statunitensi tendono a mantenere un approccio molto soft.

Quali richieste sono state soddisfatte?

Il giudice di New York nel riconoscere l’illiceità di queste pratiche ha obbligato YouTube a fornire alcuni dati utili alla commisurazione dell’illecito. Si tratta di un’azione contro Google e non contro gli utenti. Quindi non c’è stata alcuna richiesta che possa violare la privacy degli utenti stessi; il giudice ha semplicemente richiesto lo svelamento dei dati degli utenti che hanno avuto accesso ai video, per esempio il numero delle volte che un video è stato visto, l’indirizzo Ip di chi lo ha visto, senza naturamente svelare i nominativi di chi ha visto tali video, nomi che peraltro non sono certo presenti negli archivi di YouTube. Si tratta dunque di dati di utilizzazione e non di identificazione, dati che possono servire a commisurare l’entità dell’illecito. In questo senso non vedo grandi problemi per gli utenti, se non il principio, valido anche in Europa, secondo cui la messa a disposizione di materiali protetti su una piattaforma come quella di YouTube implica sanzioni di carattere civile e penale; si è equiparati a dei contraffattori.

Questa richiesta, come dicevi, ha l’unico scopo di dimostrare che la maggior parte del traffico generato da YouTube, e quindi buona parte del suo business, ruota attorno a contenuti protetti piuttosto che a contenuti generati dagli utenti. Giusto?

Sì, esatto. Questa è una risultanza probatoria che potrà essere utilizzata nel giudizio di merito vero e proprio, se fosse poi cominciato dagli attori. In qualche modo questa pronuncia servirà a costituire una prova per la commisurazione dell’illecito.

Giuseppe, se questa sentenza dovesse trovare conferma sino a divenire definitiva, quali risvolti dovremo aspettarci noi utenti della Rete? Come cambierà il nostro approccio a Internet, sapendo che i dati di navigazione potranno essere resi disponibili a chiunque?

Questa è una sentenza la cui importanza non va esagerata. È una sentenza che non fa altro che mettere in pratica in modo molto lineare una legislazione esistente. Se l’indirizzo Ip è visto come dato ultimo oltre il quale non si può andare, io non vedo un grande rischio per gli utenti. Se invece si considera l’indirizzo Ip come un’informazione personale, allora bisogna preoccuparsi. Personalmente, tuttavia, non vedo una simile equiparazione. Occorre poi tenere presente una cosa molto importante: in queste circostanze le grandi corporation non hanno certo la possibilità di farsi giustizia da sé o di fare indagini per proprio conto. I dati personali, identificativi, sono rivelabili soltanto dietro ordine dei giudici. Nella normativa europea, peraltro, tali dati possono essere svelati, sino a rivelare l’identità dell’utente, soltanto in occasione di indagini di tipo penale. Che poi oggi, nell’ambito del diritto d’autore, ci sia un’equiparazione tra illecito civile e punibilità penale è un altro discorso. Oggi rendere disponibile un video protetto via email o su YouTube è un reato, ma questo gli utenti lo sanno da anni. Questa sentenza, dunque, dal mio punto di vista, non pone grandi problemi agli utenti, perche oltretutto conferma la tendenza dei grandi detentori del diritto d’autore ad andare contro l’intermediario, che non può certo nascondersi dietro un dito quando basa il suo business su comportamenti illeciti dei suoi utenti.

Chiudiamo con una rassicurazione: gli utenti al momento non debbono temere né richieste di risarcimento né la violazione della loro privacy.

Avallerei questa tua affermazione, raccomandando tuttavia un utilizzo responsabile della Rete. Occorre prestare attenzione, perchè queste attività, che sono ormai riconosciute come illecite, sono passibili di sanzioni di tipo penale. Gli utenti che scambiano o mettono a disposizione grandi quantità di contenuti possono essere soggetti ad osservazione. Lo scudo della privacy funziona sino a quando tali atti non hanno rilevanza penale. Quando assumono tale rilevanza non c’è alcuna scusante per l’utente; la privacy può essere in qualche modo superata. È come se un ladro nascondesse la refurtiva in casa e poi si appellasse alla privacy. Il suo diritto finirebbe nel momento in cui l’autorità dovesse accertare l’esistenza o meno di un reato.

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