Per di molti di noi oggi Internet è un bene di consumo. Oltre mezzo miliardo di persone la usano regolarmente nel mondo, spesso in alternativa alla TV o al telefonino, e per le fabbisogna più disparate. Una crescita rampante avviatasi verso il 1992-93, che però non è mai stata (né poteva esserlo) lineare, quanto piuttosto frastagliata e controversa. Non a caso la stessa esistenza della rete delle reti, come si diceva “una volta,” rifletteva specularmente quella serie di conflitti alla base del “fenomeno” Internet. Nonostante la sordina che vorrebbero imporre i dinosauri (AOL Time Warner, Microsoft, Disney), tale fenomeno rimane tuttora un coacervo di questioni in divenire continuo al bivio tra tecnologia ed economia, società e cultura. E se paiono finiti i tempi della frontiera elettronica originaria, con presunti sceriffi e presunti fuorilegge a dividersi la palma del migliore sul palco (esempio, classico, il libro del ’93 “Hacker Crackdown” di Bruce Sterling, oggi divenuto literary freeware per usi non commerciali online), in realtà il magma digitale continua pur sempre ad essere in ebollizione.
In buona parte ciò è dovuto alle mille dinamiche a largo raggio messe in moto dal movimento del free software/open source, le cui potenzialità vanno ben oltre i pur importanti aspetti tecno-informatici. E pur se spesso ignorato dalle grandi testate, prosegue il sorgere (e il risorgere) di isole di ribellione sparse qua e là. Ci aspetta forse una “nuova” frontiera elettronica? Forse. Solo che stavolta il confronto si gioca o in ambiti molto alti (vedi la policy di zero-tolerance di Hollywood a presunta tutela del copyright) oppure in contesti ancora più dinamici e “underground” di quella prima fase (il dopo-Napster e il peer-to-peer insegnano).
Partendo da quest’ultimo scenario, è bene notare al riguardo la posizione del profeta del free software, Richard Stallman, in arte RMS. “È pratica antisociale frapporsi tra una persona e i propri amici. Napster mi ha convinto che dobbiamo consentire perfino la redistribuzione non-commerciale al pubblico più ampio anche solo per divertirsi. Poiché così tanta gente vuole farlo, vuol dire che si tratta di un’attività utile.” Pur se il modello inizialmente proposto da Napster rimane controverso (file-sharing libero ma con obiettivi pur sempre commerciali), Stallman ammette insomma l’importanza dell’aspetto sociale innescato da quell’idea. Un’idea, quindi, che non poteva non espandersi a macchia d’olio, nonostante ora Napster sia stato definitivamente seppellito e pur con le mille diatribe legali cui sono sottoposti gli emulatori tipo Aimster/Maister. Intanto, le major discografiche paiono aver imparato la lezione (davvero?) e sbraitano per far partire progetti similari, ovviamente con materiale rigorosamente sotto pesanti lucchetti e a pagamento.
Eppure non è facile dormire sonni tranquilli. Si è gia parlato delle proposte di legge che negli USA vorrebbero affiancare al già tenebroso Digital Millennium Copyright Act specifiche norme repressive per i network peer-to-peer. Altro segnale meno ufficiale ma forse ancora più indicativo del clima poco sereno, è la recente “ingiunzione” della University of Southern California verso i propri studenti. In avvio di anno accademico, questi ultimi si sono visti recapitare una e-mail dell’amministrazione in cui si dice che “l’uso di servizi di scambio-file peer-to-peer potrebbe costringere l’università a buttar fuori gli studenti dal network interno.” Il testo specifica le violazioni al copyright di simili pratiche, rispetto alla copia illegale di film, musica e altri tipi di file. Aggiungendo che, come già accaduto, l’industria di Hollywood può ottenere legalmente i log dal provider e poi imporre altrettanto legalmente a questi ultimi di tagliare l’accesso a coloro sospettati di “pirateria.”
Ovviamente la mossa mira a prevenire il folle balletto di file-sharing iniziato un paio d’anni fa proprio nei dormitori universitari, dove Napster incontrò immediato ed enorme successo. Testimonia soprattutto la non facile ricerca di soluzioni al perdurante conflitto tra l’indipendenza delle istituzioni accademiche (e in ultima analisi, dei singoli studenti) rispetto all’ingerenza dei soliti boss dell’intrattenimento. Ad esempio, all’apice della parabola Napster, 17 college decisero di vietare completamente l’accesso al servizio sui PC del campus. Al contempo però la maggior parte delle scuole continua ad optare per lasciar mano libera agli studenti, pur tenendo un occhio aperto sulle loro attività. Ancora; ogni iscritto al MIT può usare l’ampiezza di banda che meglio gli aggrada, mentre la University of California di Berkeley e Stanford University hanno posto dei limiti a tale ampiezza disponibile.
Se insomma si temono altre bizzarrie anti-copyright di massa in ambito giovanile, l’autunno si preannuncia caldo in altro settore emergente, quello delle reti Wi-Fi. Ambito in cui già da diversi anni operano, in grandi metropoli tipo New York, le prime aree di accesso “free” con un raggio inferiore al kilometro quadrato. Grazie a speciali antenne e altri marchingegni, questi “ribelli del wireless” non fanno altro che agganciare e allargare la banda fornita a qualche locale pubblico mettendola a disposizione di altri utenti in zona. È ad esempio il caso di Michael Oh, che nel cuore di Boston un paio di settimane addietro ha equipaggiato adeguatamente la propria Saturn per poi posteggiarla nei pressi un caffè Starbucks in cui l’accesso Wi-Fi viene venduto al minuto (2,50 dollari per ogni quarto d’ora). È successo che alcuni laptop degli utenti all’interno del locale hanno captato il segnale “libero” e si sono prontamente adeguati.
La “macchina da guerra” di Michael Oh ha cioè creato un mini-network senza fili pubblico, nella convinzione che l’accesso a quest’ultimo così come a Internet questo debba rimanere libero e gratuito. E Oh non è certo il solo a pensarla così, operando di conseguenza, visti i numerosi download delle proprie istruzioni — prontamente inserite sul web — per equipaggiare analogamente un’automobile con modica spesa e componenti di semplice reperibilità. In altre città, qualcun altro ha invece optato per semplici antenne ricavate dai tubi delle patatine o simili aggeggi fatti in casa, a conferma di una creatività analoga a quella del “phone phreacking” cui all’alba degli anni ’90 si dedicò con passione anche un certo Kevin Mitnick — ricordate? il presunto super-hacker, poi scagionato da gran delle pesanti accuse mossegli ma in libertà vigilata fino al gennio 2003.
Meno male, insomma, che l’Internet orizzontale, aperta e perché no?, destabilizzante, di non così lontana memoria, è ancora viva e vegeta….