L’emanazione, avvenuta – com’è noto – nell’autunno scorso, di una legge inglese che consente ai datori di lavoro di controllare la posta elettronica dei loro impiegati, anche a loro insaputa, non ha mancato di suscitare numerose critiche e dibattiti, non solo in Inghilterra, ma in molti altri paesi.
Secondo i commentatori la legge può rappresentare un grave attentato alla vita privata e ripropone – in uno scenario nuovo qual è quello delineato dal crescente utilizzo delle tecnologie informatiche sui luoghi di lavoro – il problema della necessità di tutelare i diritti dei lavoratori, in relazione alle diverse modalità di controllo adottate da chi organizza e dirige l’impresa dalla quale dipendono.
Se è vero che l’utilizzazione delle nuove tecnologie a fini privati nelle società può, in alcune ipotesi estreme (spionaggio industriale, pedofilia, ecc…), condurre a risultati reprensibili, tuttavia occorre esaminare attentamente l’insieme delle conseguenze che possono derivare dall’introduzione di nuovi strumenti di controllo nelle imprese e, in particolare, le loro implicazioni sul piano del diritto alla riservatezza.
Il tentativo di contemperare i diversi interessi contrapposti ha portato a conclusioni anche alquanto diverse rispetto a quella inglese.
In Francia, ad esempio, il Conseil de prud’hommes di Nanterre, con una sentenza non recentissima, ma che ha fissato un principio ripreso dalla maggior parte delle decisioni successive in materia, si è pronunciato in merito alla validità del licenziamento di un dipendente dell’IBM, causato dall’utilizzazione dei mezzi dell’impresa per la consultazione di siti pornografici.
L’IBM aveva motivato ai giudici la propria decisione, sostenendo che la colpa del dipendente consisteva nell’utilizzazione “in modo frequente e continuo dei mezzi di comunicazione informatici” – messi a disposizione dall’azienda per un uso esclusivamente professionale – “a fini inaccettabili” (connessione e salvataggio di files, testi, immagini ricavate da siti Internet pornografici).
L’impiegato licenziato, che lavorava nell’impresa da più di vent’anni, aveva spiegato, invece, che da due anni era privo di un’assegnazione e che era stato sollecitato dal suo datore di lavoro ad aggiornarsi in merito all’utilizzazione di Internet.
Per caso, mentre inseriva della carta nella stampante, il direttore era venuto a conoscenza del fatto che il dipendente aveva dedicato una parte sostanziale del suo tempo alla consultazione e alla stampa delle pagine di siti a carattere pornografico, e aveva deciso di dar corso al licenziamento per colpa grave, accompagnato da una sospensione dall’ufficio a titolo cautelare.
Il datore di lavoro aveva fatto rilevare che i principi elementari del diritto del lavoro vietano l’utilizzazione dei beni dell’impresa a fini personali, senza autorizzazione, principi richiamati anche in un documento interno della società, che compariva al momento dell’avvio di ogni computer.
Il Conseil de prud’hommes di Nanterre ha, invece, annullato il licenziamento, ritenendo che i motivi addotti fossero carenti sul piano probatorio e non sufficientemente chiari.
In particolare, i consiglieri hanno contestato il fatto che il disco fisso del computer del dipendente e i documenti trovati in uscita dalla stampante, e prodotti in giudizio, non fossero stati immediatamente posti sotto sequestro.
Inoltre, l’autorità giudiziaria ha interpretato le “regole di condotta nell’impresa”, dettate dal datore di lavoro, nel senso che la consultazione dei siti pornografici da parte di un dipendente non può essere considerata come un’utilizzazione di beni della società ai fini di un profitto personale.
Le imprese che vogliono sorvegliare le attività dei loro impiegati, secondo quanto si evince dalla decisione, sono tenute, pertanto, a predisporre sistemi d’informazione chiari e a utilizzare strumenti probatori incontestabili.
Tali regole dovranno anche corrispondere alle raccomandazioni della CNIL (Commission nationale de l’informatique et des libertés).