Il bello di un mondo che viaggia alla velocità della luce è che ti fai delle grandi risate. A volte molto amare. La ragione di tanta ilarità è che i mondi delle tecnologie e della comunicazione viaggiano veloci, velocissimi, e vedono il futuro (a volte, ammettiamolo, sbagliando clamorosamente). La società si muove un po’ più lentamente, a velocità diverse, dividendosi in innovatori, in immobilisti e tutto quello che c’è nel mezzo. Le aziende e la loro cultura tendenzialmente viaggiano ancora più lentamente, restando indietro rispetto a tante cose, rischiando di trovarsi in sintonia solo con la fascia più conservatrice del pubblico, quella per intenderci che guarda RaiUno.
Essere innovatori vuol dire guardare avanti ma anche andare avanti. E andare avanti significa cambiare. E cambiare porta un rischio di forte lacerazione, di destabilizzazione dell’impresa e dei suoi meccanismi aziendali e di carriera che spesso premiano in maniera assolutamente prioritaria il non sbagliare, quindi la riduzione totale del rischio. Anche a costo del risultato.
Employee branding
Più specificamente, la risata amara me la sono fatta ieri, leggendo un post che mi ha riportato alla mente l’utopia dell’employee branding. Per chi non fosse addentro al concetto, un breve background: come molte buone idee, questa è molto semplice. La prima o comunque una importante fonte di comunicazione dell’azienda verso l’esterno è costituita dalle sue persone, i dipendenti. Un contatto umano è più forte di qualsiasi pubblicità; l’impatto che mi può fare un commerciale, un addetto al call center, un tecnico è determinante per formarmi o de-formarmi l’idea, il brand dell’azienda.
Un gruppo di persone entusiaste, che credono nell’azienda, che ne condividono la filosofia, che si trasformano volentieri e spontaneamente in evangelisti può portare un sacco di business, per ridurre al succo il discorso. E dare l’idea al mercato di un’azienda felice, aiutare ad attirare talenti; creare un’appeal verso la marca di quelli che portano giornalisti e blogger a fare la coda per intervistarti, capire il successo, farti un sacco di pubblicità gratuita
Oltre l’utopia
Di tutti gli strumenti di marketing e comunicazione che conosco, quella dell’employee branding mi sembra la più fantascientifica, specialmente da noi (ma non solo). Io ormai conosco non più di quattro o cinque aziende di cui posso dire che le persone ci vivono contente. L’altro 99% è fatto da persone insoddisfatte o decisamente arrabbiate, che alla prima occasione ti svelano gli altarini, minano la comunicazione raccontandoti come l’approccio al cliente o la vision/mission (di cui propongo una moratoria) siano solo escamotage di marketing all’interno di aziende totalmente ciniche, pronte a essere come tu mi vuoi, a condizione che la gente se la beva e compri. Basta che funzioni.
Il distacco tra realtà e comunicazione si sta dunque approfondendo, violando uno dei principi storici del settore; per funzionare occorre dire cose vere, come dice il motto di un’agenzia per cui ho lavorato: «verità ben dette». Il mercato già da tempo percepisce il marketing e la comunicazione come una fabbrica di menzogne. Oggi, con i social media, le reti e tutto il resto dell’ambaradan digital/mediatico e user generated, le menzogne hanno le gambe corte. E i mal di pancia degli stessi dipendenti, gli scazzi, le cause intentate dai licenziati, il mobbing verso manager ritornate dalla maternità, ma anche l’addetta frustrata da attriti sindacali che caccia gli spettatori del concerto al Pantheon fanno il giro della rete in poche ore. E non si fermano agli addetti ai lavori. Le persone dunque non sono più una risorsa, non più di quanto lo sia una fotocopiatrice che si può sostituire e che comunque deve lavorare alla pressione di un pulsante? Siamo liquidi, siamo disposable?
Opportunità o minaccia?
L’azienda oggi oltre a tutte le difficoltà che deve già superare si trova spesso dunque ad affrontare il tema dell’employee vranding non come una opportunità, ma come un’altra delle difficoltà, come un limite,una PR Crisis, un fattore di pubblicità negativa che l’azienda autogenera su base continuativa. A volte è solo miopia: ho visto agenzie di comunicazione con uffici tristissimi, in cui alloggiavano proprio le persone che dovevano essere creative, brillanti, generare idee con la fantasia e l’intelligenza. Abitando in luoghi affollati, deprimenti ed essendo motivati da potenti «o ce la fai o te ne puoi anche andare». Tanto di gente fuori c’è la coda, meglio se junior così costano meno, non vogliono essere assunti e hanno un atteggiamento più sottomesso. Alla faccia della convergenza di Vaticano e Confindustria sul rispetto del valore dell’essere umano nelle imprese.
Per me è un sollievo incontrare qualcuno che mi racconta di cose belle della propria azienda. Di visioni, di una comprensione, di un investire sulle persone piuttosto che sui mobili o le tecnologie. E sono quelle le aziende da cui preferisco rifornirmi. Sia per la visione etica centrata sull’essere umano, sia per la maggiore intelligenza dimostrata, sia perché – scusate la brutalità – galline felici fanno uova migliori e quindi sarò probabilmente un cliente più soddisfatto (evviva il cinismo).
Da dove cominciare
In un mondo sempre più social e sempre più ciarliero, avere persone che credono nell’azienda significa anche avere un volume di comunicazione spontaneo sui social media che difficilmente potremmo ottenere, anche pagando un sacco di soldi. Ma tant’è, la cultura aziendale è quella che è, le pressioni degli azionisti sono quelle che sono, il modo di considerare (nella pratica, non nelle dichiarazioni) le persone lo conosciamo. Prima dunque di investire in operazioni di engagement sui social media per generare buzz positivo, permettetemi una piccola raccomandazione: cerchiamo di evitare la generazione di un buzz negativo. Per quello non c’è censura che tenga.
P.S. – Nel caso siate appassionati di fantascienza e conosciate già a memoria l’Hhttg, vi segnalo due link da cui imparare questa buffa cosa che sarebbe l’employee branding fatto bene: Employees Branding Guidelines e Happy People makes Happy Businesses.