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Un percorso verso le emozioni

08 Novembre 2004

Un percorso verso le emozioni

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Proponiamo oggi la lettura della Prefazione di Sebastiano Bagnara al libro "Emotional Design. Perché amiamo (o odiamo) gli oggetti di tutti i giorni" di Donald Norman, recentemente pubblicato da Apogeo.

Donald A. Norman ha scritto molto: pubblicazioni strettamente scientifiche su riviste specializzate, per pochi esperti, articoli di più larga diffusione, per gruppi professionali estesi, e anche interventi sui mezzi di comunicazione di massa. Ha scritto anche molti libri, a partire dal testo/manuale Memory and attention. An introduction to human information processing (New York, Wiley, 1976), tradotto in italiano quasi dieci anni dopo con il titolo Memoria e attenzione. Introduzione all’elaborazione delle informazioni nell’uomo (Milano, Angeli, 1985), a questo Emotional Design, che viene pubblicato nella sua traduzione italiana solo pochi mesi dopo l’edizione originale

In Emotional Design, Donald Norman affronta un tema, apparentemente, del tutto nuovo per lui: le emozioni e la progettazione per l’emozione di forme, oggetti, e interazioni con gli oggetti e, attraverso gli oggetti, di interazioni fra persone. Si pone il problema dello scopo emotivo e sociale per cui agiamo, mostrando che un’azione diviene comprensibile, se si guarda alle emozioni che vogliamo provare, o a quelle che desideriamo evitare, al risultato sociale che cerchiamo di ottenere.

Questo tema era implicito, marginale, se non ignorato, nei lavori precedenti, in cui l’accento era messo sulla necessità di progettare in funzione dei limiti e delle caratteristiche cognitive dell’uomo.

Nella sua battaglia per una progettazione “a misura d’uomo”, sembrava opporre, all’uomo astratto di molto design, un uomo concreto a metà, solo cognitivo. Ben poco spazio era lasciato al gusto, al desiderio del bello e del piacere, al dolore, all’odio e all’amore, allo svago e al puro ozio. C’era come l’ansia della prestazione, del risultato da ottenere il più velocemente possibile e senza errori.
Donald Norman era ed è oggetto di una polemica astiosa da parte dei designer proprio perché lo trovavano assolutamente critico rispetto a soluzioni anche esteticamente sontuose, se poco usabili.

In fondo, a Norman veniva rimproverato un atteggiamento, attribuito anche all’ergonomia, forse non del tutto a torto, che sembra teso a condizionare il lavoro del designer con una serie di
vincoli e norme che ne possono minacciare creatività. Emotional Design sembra rappresentare nella sua tesi principale, ripresa sin nel titolo, una forma di autocritica, un ravvedimento tardivo.

Non è vero. Non si tratta di una autocritica. È il risultato di serie di esperienze, forse irrepetibili, importanti e uniche. Norman è stato un brillante ricercatore e il direttore di uno dei più grandi e innovativi dipartimenti di scienze cognitive, all’Università di California a San Diego. Ma è stato anche top manager alla Apple e alla Hewlett-Packard, imprenditore con Unext e con il Nielsen Norman Group. È stato ed è un influente e ascoltato consulente d’alta direzione. Queste esperienze gli hanno fatto toccare con mano il valore, anche economico, di mercato, del bello e del gradevole.

Il libro non è un tardivo ravvedimento perché è anche il prodotto di un costante atteggiamento culturale, aperto e attento anche alle minuzie della vita quotidiana: passeggiare per una città, essere ospiti in una casa, visitare un museo, entrare in un ristorante con Don sono esperienze affascinanti e uniche. La sua curiosità è incredibile. I particolari lo attraggono, li nota, spesso li fotografa. Questo atteggiamento culturale lo porta non tanto a osservare, ma quasi a scrutare il mondo della vita quotidiana, ma anche le innovazione tecnologiche più avanzate e a prima vista inutili e folli.

È questa la fonte inesauribile degli esempi di cattivo, ma anche di buon design, che gli servono per illustrare le sue affermazioni. Ma è anche la radice dell’apertura al nuovo e il fondamento della capacità di “sentire” nelle cose gli inizi del futuro, le tendenze innovative.

Emotional Design rappresenta lo sviluppo di una linea di pensiero, di un percorso di ricerca e di esperienze. Forse è bene riprendere, almeno a grandi passi, questo tragitto perché può aiutare a farsi un’idea della radice delle affermazioni, dei ragionamenti presentati in modo così piano e quasi sommesso da sembrare naturali e scontati, patrimonio del senso comune. È un percorso di ricerca e di esperienza difficile da rintracciare nel libro, perché implicito e ormai fuso nelle argomentazioni e nello sforzo, riuscito, verso la chiarezza espositiva (la mia segretaria, Benedetta, ha letto dei brani della traduzione italiana mentre la stampava, ed è stata colpita dall’interesse del contenuto e dal modo in cui viene proposto).

Norman pubblica nel 1976 Memory and Attention, che rappresenta in qualche modo il momento riassuntivo di una consistente esperienza di ricercatore di psicologia sperimentale. I suoi lavori sono frutto di studi di laboratorio, empirici, alla ricerca del dato che dimostra o falsifica una tesi, un’ipotesi. La rigorosità della ricerca sperimentale si diluirà nel tempo e con la mutazione dei lettori dei suoi lavori, sempre più spesso pubblicati in libri. Il pubblico non è più composto solo da studiosi ed esperti che condividono lo stesso rigore metodologico e le stesse conoscenze, oppure studenti che debbono imparare quelle conoscenze e quelle metodologie.

Nel tempo i lettori si trasformano, fino a diventare un pubblico molto ampio, seppure culturalmente avvertito. Non perde però i lettori più competenti, tanto che pure i suoi libri di maggiore successo sono adottati all’università e vengono letti con attenzione da ricercatori raffinati.

Rimane però l’uso dimostrativo del dato. Un caso, una storia, una fotografia vengono ripresi certamente anche per catturare l’attenzione del lettore per la loro stranezza, la rottura della banalità, sono sempre anche un artificio retorico e letterario. Ma in realtà la funzione delle storie della vita quotidiana è dimostrativa – sono, prima di tutto, dati che sostengono empiricamente un’affermazione, un’idea, un’ipotesi.

Questo atteggiamento, derivato dall’addestramento nei laboratori di psicologia sperimentale, si ritrova in tutti i suoi libri: Emotional Design muove non a caso da un esperimento. L’esperimento, condotto da due ricercatori giapponesi, Masaaki Kurosu e Kaori Kashimura, dimostra che con Bancomat più attraenti le persone facevano le operazioni più in fretta, meglio (commettevano meno errori), ed erano pure più contente. Prova che la gradevolezza estetica ha un ruolo significativo non solo per la soddisfazione, come ci si aspetta, ma anche per la prestazione.

Il lavoro di Norman è stato caratterizzato dall’attività prevalente di psicologo sperimentale fino alla fine degli anni Settanta. Poi, l’attività in laboratorio è andata progressivamente diminuendo. Non si è però mai esaurita. Anzi è ripresa negli ultimi anni nella collaborazione con Andrew Ortony, proprio nello studio delle emozioni. Questo periodo però ha contribuito a definire delle costanti
nel suo atteggiamento culturale e scientifico non riconducibili alla sola rigorosità metodologica, ma relative all’impostazione teorica di fondo: l’assunzione del punto di vista cognitivista e il riferimento all’uomo come elaboratore d’informazione.

Questa impostazione parte dall’osservazione che l’uomo elabora informazione, ma entro limiti definiti, è flessibile, ma di nuovo entro limiti, nei processi di elaborazione, nei meccanismi percettivi, nei processi di memorizzazione, di ricordo e riconoscimento, di apprendimento. I limiti nella capacità e nella flessibilità di elaborazione sono rimasti solidi punti di riferimento nell’impostazione di Norman.

Proprio il retroterra scientifico in questi studi e di questa impostazione gli consentono, in Emotional Design, di spiegare gli effetti dirompenti della connettività continua e globale sui legami sociali e sulla comprensione storica e politica. La connettività si può anche configurare, e, di fatto, così avviene, come interruzione continua e non pianificata della comunicazione e dei rapporti sociali: si pensi alle telefonate sul cellulare durante le conversazioni. L’interruzione continua, spiega la psicologia cognitiva, è garanzia di superficialità nelle relazioni sociali, impedisce la costruzione di rapporti profondi. Siamo in contatto con tante persone, ma con tutte superficialmente. L’interruzione poi impedisce la riflessione e questo conduce inesorabilmente a una debole comprensione dei fenomeni che regolano la società.

La visione cognitivista di Norman si arricchisce nella collaborazione con Tim Shallice, il primo psicologo che aveva parlato di coscienza, ancora nel 1972 (T. Shallice, “The dual functions of consciousness” in Psychological Review, 79, 109-122, 1972) dopo che il concetto aveva conosciuto un ostracismo dalla psicologia scientifica durato cinquant’anni ad opera del programma comportamentista. Shallice aveva ricordato che l’uomo non è in balia dell’ambiente e degli stimoli esterni, ma è essenzialmente autonomo. La collaborazione, che risale ai primi anni Ottanta, li porta assieme a sviluppare un framework teorico (Tim Shallice e Donald A. Norman, “Attention to action: Willed and automatic control of behaviour” in R. J. Davidson, S., Schwarz, S., Shapiro (Eds.) Consciousness and self-regulation, New York, Plenum, 1986), che sottolinea la funzione cognitiva della volontà, garanzia dell’autonomia della persona.

Questa autonomia rende l’uomo libero e responsabile della scelta dell’informazione da trattare, nonché delle parti di ambiente fisico e sociale che vuole mantenere sotto il suo controllo, e quindi delle decisioni che prende. Paradossalmente, ma non tanto, è questo contributo che trova spazio nella progettazione dei robot e nella riflessione sul loro futuro che conclude il libro. Ma questo framework è soprattutto importante perché è la base teorica di un passaggio fondamentale nel percorso intellettuale di Norman, sviluppato nel libro User Centered System Design: New perspectives in human computer interaction (Hillsdale, NJ, Lawrence Erlbaum Associates, 1986), curato insieme a Stephen Darper.

Se gli individui sono liberi, sono anche diversi. Certo, avranno un patrimonio cognitivo comune, fatto di processi, meccanismi, funzioni e strutture cognitive, ma questi sono parzialmente flessibili e inoltre i loro prodotti sono diversi, perché si applicano a informazioni e a mondi differenti e con scopi individuali. Uno stesso processo cognitivo, per esempio, di memorizzazione, produrrà ovviamente ricordi diversi in funzione dell’informazione su cui si applica. Non solo, poiché l’informazione non esiste in astratto, tanto meno quella che elaboriamo in un dato momento, il prodotto dei processi cognitivi è sempre legato al contesto in cui sono stati applicati. Un processo di progettazione di un oggetto basato sulle comunanze non è mai realistico. Il design deve confrontarsi con la soggettività dell’esperienza e del modo di fare esperienza degli individui.

È questa la base teorica dello “user centered design”, che rileva la diversità delle esperienze individuali, nonostante il comune patrimonio di processi cognitivi e la necessità di recuperare la soggettività, componente non prevedibile e non modellizzabile, pena la perdita di realismo. In questo passaggio la psicologia rinuncia alla pretesa di dare le regole generali del comportamento umano, di proporre norme al design. È il passaggio dall’ergonomia della norma, che vale per tutti, all’ergonomia delle linee-guida, che insistono sulla metodologia di progettazione flessibile e attenta a contesti.

Le relazioni fra ergonomia e design vengono riformulate: entrambi debbono guardare all’utente, destinatario del processo di progettazione. È l’utente il solo esperto di sé, del suo modo di vivere e di lavorare. La psicologia può offrire degli strumenti che lo possono aiutare nell’esprimere, comunicare questa expertise, che è in gran parte tacita, e quindi muta: si può mostrare ma non dire. Gli individui sono tutti differenti, progettare per l’utente significa progettare quindi per la personalizzazione.

“Siamo tutti designer”, sostiene in questo libro Norman. È la fine della progettazione del prodotto massa, che ha come obiettivo la soddisfazione dei bisogni basici e comuni. La progettazione punta a dare forma ai desideri. E nulla è più personale, individuale dei desideri. Gli individui però sono differenti non solo gli uni dagli altri, ma esibiscono anche comportamenti diversi in contesti diversi. Solo un’analisi del comportamento che adottano nelle diverse attività può permettere di cogliere cambiamenti e specificità legate ai vari contesti e alle varie attività. Proprio per dar conto delle variazioni del comportamento umano in contesti diversi vengono coinvolte l’antropologia e le metodologie della raffinata osservazione etnometodologica. Solo l’analisi multidisciplinare consente di progettare gli strumenti adatti nei diversi contesti.

La nozione di contesto introduce il terzo passaggio nel percorso intellettuale di Norman, quello caratterizzato dall’approccio di cognizione distribuita. Se uno strumento è ben progettato “mi dice”, in modo immediato, cosa è, a cosa serve, che azioni posso fare e quali non posso fare con esso. Nel gergo degli psicologi e degli ergonomi cognitivi, tutto questo viene riassunto con il termine affordance. Uno strumento possiede la qualità dell’affordance se nel momento che percepisco, intuisco che azione debba fare e posso automaticamente prevedere il risultato che otterrò. Il possesso della qualità dell’affordance è la caratteristica che qualifica il buon design. La sua assenza rende difficile capire che cosa è, può condurre ad errori nell’uso, non riuscire a comprendere che cosa si è ottenuto.

Tutti i casi ripresi nel libro più famoso di Norman, The Design of Everyday Things (New York, Basic Books, 1988; traduzione italiana La caffettiera del masochista. Firenze, Giunti, 1990) sono esempi di oggetti e strumenti che, in quanto privi della qualità dell’affordance, ci frustrano nella nostra vita quotidiana fino a diventare una patologia.

Gli oggetti di buon design però non ci rendono solo la vita facile, ma ci fanno intelligenti (Donald A. Norman, Things That Make Us Smart. Reading, Addison-Wesly, 1993; traduzione Italiana Le
cose che ci fanno intelligenti, Milano, Feltrinelli, 1995). Nel loro design è incorporata la conoscenza che serve per usarli. E richiamano immediatamente una serie di altre conoscenze. In realtà, quando li percepiamo è come se avessimo accesso e ci impadronissimo di una serie di conoscenze. Il design può essere pensato come quella attività umana che programmaticamente distribuisce nell’ambiente le conoscenze necessarie laddove e per quando se ne avrà bisogno, liberandoci dal peso di dovercelo ricordare.

Rispetto alla conoscenza distribuita, è facile pensare immediatamente al computer. In realtà, il computer è l’ultimo e più potente mezzo per distribuire la conoscenza fuori della nostra testa
nell’ambiente fisico e sociale (le organizzazioni sono formidabili strumenti per distribuire in modo pianificato le conoscenze). Basta pensare alle città, che sono grandissimi sistemi di conoscenza distribuita, ma anche alle briciole di pane di Pollicino, che lo aiutano a trovare la strada, o alla via dei canti descritta da Chatwin che serviva agli aborigeni per attraversare l’Australia. Sono tutti sistemi in cui conoscenze rilevanti sono depositate nell’ambiente esterno: l’uomo le trova pronte dove sono utili e quando ne ha bisogno.

La distribuzione delle conoscenze è un’immensa e formidabile costruzione sociale che rende più facile la nostra vita, ma solo se abbiamo accesso facile e immediato alle conoscenze e, una volta trovate, sono di facile uso e risultano di facile manipolazione. Il computer, avverte Norman (Donald A. Norman, The Invisibile Computer. Cambridge, Mass., MIT Press, 1988; traduzione italiana, Il computer invisibile. Milano, Apogeo, 2000) è un formidabile strumento di distribuzione delle conoscenze, ma ha una pessima accessibilità (per esempio, l’informazione necessaria per visitare una città può essere anche completa, ma l’abbiamo a disposizione a casa nostra, non durante la nostra visita a quella città), usabilità (riusciamo a manipolare l’informazione, ma in astratto, non seguendo l’evolversi dei nostri bisogni e delle nostre curiosità durante la visita). All’interno dei sistemi di conoscenza distribuita, l’oggetto computer è un collo di bottiglia. Per essere efficace, deve diventare invisibile e spalmarsi negli oggetti fino a confondersi e diventare una loro affordance.

Ma cos’è che rende evidente questa difficoltà nell’uso del computer all’interno dei sistemi di conoscenza distribuita? Non è tanto la difficoltà d’uso o di accesso, quanto la sensazione di una rottura nel flusso dell’esperienza. Si avverte che c’è una interruzione. Quando si progetta un sistema a conoscenza distribuita, l’utilizzo del computer come supporto conduce spesso alla percezione di una discontinuità. In realtà, quando si progettano questi sistemi, che poi sono i sistemi di vita, si progettano esperienze che non sopportano bruschi cambiamenti, passaggi immediati dall’immersione nel flusso di vita alla riflessione obbligata, o peggio al senso di smarrimento. Le emozioni che si provano sono negative, non piacevoli, frustranti.

Nel processo di progettazione dei sistemi di distribuzione delle conoscenze, cioè di quanto è più cognitivo, ci si imbatte nell’emozione come elemento qualificante dell’esperienza cognitiva complessiva, che può renderla piacevole ed esaltante, ma anche frustrante e odiosa.
È per questo che Emotional Design non è una autocritica. È l’evoluzione naturale di un percorso di ricerca che si apre al design di una tecnologia “addomesticata”, quotidiana che arricchisce le esperienze di vita.

Sebastiano Bagnara, Politecnico di Milano

Il libro “Emotional Design – Perché amiamo (o odiamo) gli oggetti di tutti i giorni” è disponibile nelle migliori librerie e può essere acquistato online.

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