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Tutta colpa del file-sharing se si vende meno musica?

11 Settembre 2003

Tutta colpa del file-sharing se si vende meno musica?

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Riecco le denuncie delle major, prime vittime i giovanissimi, con patteggiamenti a cifre ridicole pur di "dare l'esempio"

Prosegue il pugno di ferro contro gli appassionati del file sharing. Lanciata a metà giugno, la campagna “anti-pirateria” delle major musicali riprende vigore in questi giorni. Annunciato ieri in pompa magna l’ennesimo giro di vite, con 261 nuove denuncie presentate in vari tribunali statunitensi. Gli accusati sarebbero utenti dei network peer-to-peer che hanno scambiato illegalmente almeno 1.000 canzoni. Manco a dirlo, l’azione va ricevendo ampio spazio qui in USA un po’ ovunque, con inclusa intervista mattutina odierna ai microfoni della National Public Radio del portavoce della Recording Industry Association of America (RIAA). Peccato però che, almeno tra le testate mainstream, pochi sembrano notare le questioni di fondo: riuscirà la paura a bloccare davvero il dilagare del file sharing? E a far risalire le vendite dei comuni CD? Oppure tali campagne avranno effetti boomerang? E i problemi in realtà sono un tantino più complessi?

Tanto per cominciare, sembra essere la stessa RIAA a dubitare degli effetti positivi delle iniziative legali. Nell’intervista di cui sopra, il portavoce dell’associazione ha dichiarato tra l’altro: “È vero che in estate il traffico dei sistemi file-sharing sia diminuito, ma ciò accade di norma nei mesi caldi, quando le scuole sono chiuse e gli studenti tornano a casa o vanno in vacanza, e non possono usufruire delle connessioni a banda larga dei campus. Resta da vedere cosa accadrà nelle prossime settimane.” Scenario confermato da un report appena apparso su Wired News, in cui si spiega che l’approccio della RIAA pare destinato a risultare inefficace a tempi lunghi. Al riguardo si cita Wendy Seltzer, legale presso l’Electronic Frontier Foundation: “Per i 60 milioni di americani che oggi usano i servizi di file-trading, qualora dovessero smettere brevemente per paura di essere beccati, non credo passerà molto tempo prima che trovino altri modi meno tracciabili per scambiare musica.”

In pratica, come già accaduto più volte nella storia di internet, c’è da scommettere che quanto prima uscirà fuori un qualche sistema e/o tecnologia in grado di garantire scambi file in maniera più anonima, rendendo più difficile risalire agli autori del download. Mentre al contempo gli utenti vedranno di differenziare percorsi e preferenze, dall’uso di sistemi legali a basso costo (iTunes insegna) alla collezione di pezzi di artisti non aderenti al circuito RIAA. Come accade ad esempio con il circuito della Future of Music Coalition. Intanto rincara la dose Michael Goodman, analista presso Yankee Group, per il quale le denuncie contro gli utenti online stanno provocando un effetto inatteso e indesiderato sui consumatori dei comuni CD. Di pari passo con il riflusso di traffico su Kazaa e simili, sono infatti scese ulteriormente le vendite di CD: oltre il sei per cento in meno rispetto a un anno addietro e il 54 per cento in meno nei due mesi successivi all’avvio della campagna legale.

Già, perché forse uno dei punti nodali dell’intera questione va cercato altrove: la crisi dell’industria discografica è dovuta a una serie di fattori diversi, non certo (soltanto) alla “pirateria” online. In USA dal 1997 ad oggi il costo medio al dettaglio di un CD è cresciuto del 16 per cento — da poco più di 13 dollari agli attuali 15,25, secondo stime fornite dalla stessa RIAA ed altre società del settore. Diminuiti invece i titoli disponibili, con una flessione del 14 per cento a partire dal boom del 1999, quando si raggiunse la diffusione di quasi 39.000 nuovi CD. Anche le vendite si sono ridotte in maniera stabile, passando da oltre 14 miliardi di dollari del 1999 ai 12,3 miliardi dell’anno scorso. E non è certo un mistero come il tutto vada attribuito alla rampante penetrazione di altre modalità per l’intrattenimento personale, dai DVD per tutti i gusti ai cellulari multi-opzioni. Senza ovviamente tralasciare le diramazioni musicali, legali o meno, offerte dal web. Ma è certamente esagerato, oltre che sostanzialmente errato, dare la colpa del tutto soltanto a quest’ultimo ambito — pur se nel 2002 il download illegale sembra aver causato mancati guadagni alle major per almeno un miliardo di dollari.

Come andrà a finire, allora? Il consiglio spassionato per la grande industria rimane quello di offrire comunque musica a prezzi calmierati, sia nei formati e canali tradizionali sia tramite servizi online legali e innovativi. Qualcosa in tal senso sembra muoversi, ma il recente annuncio dell’Universal Music Group di prossime ribassi nel prezzo dei propri CD all’ingrosso (con probabili 13 dollari al minuto, rispetto agli attuali 17-19) è ancora poca roba. Ovvio che allo stesso tempo bisognerebbe farla finita con le denuncie contro i singoli utenti: spaventare giovani e giovanissimi non è certo una strategia simpatica né efficacemente sostenibile a lungo andare. A meno che l’industria discografica, pur di terrorizzare le decine di milioni appassionati del file-sharing, non voglia davvero accontentarsi di “patteggiare” con qualche dodicenne la bella somma di duemila dollari. Infatti, notizia dell’ultima ora da Los Angeles, Brianna LaHara è stata la prima dei 261 denunciati a trovare un accordo con la RIAA: sborserà due dollari per ogni canzone sotto copyright (presumibilmente) condivisa online. Dopo obbligatorio pentimento sotto i riflettori dei grandi media. Bella vittoria, no?

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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