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Tra mille difficoltà, cresce il WiFi cittadino

25 Novembre 2009

Tra mille difficoltà, cresce il WiFi cittadino

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All'elenco delle città che stanno aprendo reti civiche di accesso a internet si aggiungono Pescara e Firenza. A Roma il progetto più attivo. Ma scontiamo la mancanza di coordinamento nazionale e i vincoli della legge Pisanu

Pian piano e faticosamente si sta delineando la via italiana al WiFi pubblico: senza ordine né metodo condiviso a livello nazionale, a forza di progetti dettati dalla buona volontà di alcune amministrazioni. Una formula che unisce il low cost (reti costruite a costo zero o quasi per la pubblica amministrazione) e l’aggiramento di norme che renderebbero il WiFi piuttosto impraticabile (in primis il decreto Pisanu). Benvenuti insomma all’Italia del wireless, dove è lasciato indietro chi vive in città in cui le amministrazioni sonnecchiano sull’innovazione. I progetti sono quasi tutti del Centro-Nord: gli ultimi in ordine di tempo sono di Pescara (20.000 euro di spesa) e di Firenze (in dieci piazze il Comune regala un’ora di WiFi).

Parma ha speso 200.000 euro per coprire 22 zone della città. Tra i primi a partire, Bologna e Reggio Emilia (dal 2006). Il Comune di Venezia, che è appena partito, mira a 600 hot spot.
Il progetto più ampio, ora attivo, è forse ProvinciaWiFi, della Provincia di Roma. Riassume i caratteri essenziali del WiFi all’italiana: è una rete low cost formata dall’azione dal basso di tanti soggetti (e rispettive reti) uniti sotto lo stesso cappello. Obiettivo, 500 hot spot entro il 2010 (nei comuni del romano), con 2 milioni di euro di budget (quest’estate ce n’erano attivi un centinaio, con 100.000 euro circa di spesa). L’idea della Provincia è stato di reinventare il modello di Fon, basato su reti condivise e connessioni già esistenti. Negozi, edifici pubblici, circoli dotati di banda larga (con vari contratti e provider) possono aderire all’iniziativa ed entrare a far parte della stessa rete virtuale. L’utente che ha un account attivo presso Provincia WiFi può quindi navigare gratis da qualunque access point della rete. In Provincia WiFi sono confluiti anche gli hot spot del consorzio Roma Wireless, che è stato tra i principali progetti di questo tipo.

Finora, quindi, in Italia le “WiFi municipalities” sono andate avanti così: a macchia di leopardo, senza best practice né un’idea condivisa tra loro. Il problema è che non tutte le città possono trovarsi nell’incrocio di fortunate coincidenze per la nascita di reti di questo tipo. Prova ne è che in comuni come Milano e Torino il WiFi pubblico gratuito non è altrettanto sviluppato. E, visto che sempre di reti organizzate da istituzioni pubbliche si tratta, un passo avanti sarebbe dare all’utente un account unico utilizzabile in diverse città e province. Quello che manca è un passo ulteriore, che potrebbe venire da una presa di posizione del governo. E forse adesso se ne vedono i primi segni: per la prima volta, un rappresentante della maggioranza pensa a promuovere l’uso di internet da luoghi pubblici, attirandosi l’attenzione di molti in rete.

Finora il governo, a differenza appunto delle amministrazioni locali, ha avuto un ruolo opposto. Si è caduti quindi nel paradosso di istituzioni pubbliche che si muovono in sensi opposti: il governo che frena, le amministrazioni locali che agiscono sul territorio. L’effetto è stato un altro paradosso: la pubblica amministrazione per agire ha dovuto aggirare il decreto. «In modo legale, beninteso», dice Francesco Loriga, responsabile servizi innovativi presso la Provincia di Roma e la mente dietro Provincia WiFi. Il decreto obbliga i fornitori di accesso internet a identificare gli utenti tramite documenti. In un primo tempo è stato rispettato alla lettera, cioè per navigare bisognava mostrare un documento d’identità. In un secondo momento, le associazioni di provider hanno ottenuto un’estensione di questo principio (confermata da una circolare inviata ai provider dal ministero dell’Interno). E cioè che l’identificazione può avvenire anche tramite sim telefonica, perché chi ne ha acquistata una ha dovuto mostrare un documento di identità.

Restano alcuni problemi.  Primo, «l’identificazione tramite cellulare non è alla portata delle tasche e delle competenze tecniche di tutti. Non certo del piccolo bar che volesse dare accesso a internet», dice Loriga. In questo caso resta l’alternativa classica: il gestore deve chiedere un documento d’identità. Secondo, «tramite cellulare possiamo identificare solo gli utenti con sim italiana. Per comprare una sim all’estero infatti non c’è bisogno di un documento d’identità- dice Loriga. Risultato, gli stranieri dobbiamo identificarli tramite carta d’identità. Stiamo pensarlo di farlo anche via carta di credito, facendo pagare loro un piccolo costo per navigare, ma non sappiamo ancora se sarebbe accettabile dalle norme». Ecco: in Italia pesa sul WiFi (come su tante altre cose di internet) una generale incertezza normativa, per cui il fornitore di accesso non sa fino a dove può spingersi senza avere problemi. Anche per questo motivo servirebbe un intervento legislativo per chiarire e semplificare la materia. E se il governo lo facesse avendo in mente lo sviluppo di internet, invece che soltanto la sicurezza pubblica, il risultato sarebbe diverso.

Incentivare il WiFi in nome del turismo è un pretesto interessante, visto che ad oggi le norme, come si è visto, penalizzano soprattutto coloro che, a differenza degli italiani, sono abituati a camminare con un portatile sotto braccio. «Bisogna quindi eliminare dalla Pisanu tutto cioè che ci allontana dall’Europa», dice Guido Scorza, avvocato tra i massimi esperti di diritto in internet. «L’obbligo a identificare tramite documenti e quello di dichiarare gli hot spot alla Questura», aggiunge. Il primo potrebbe essere modificato, appunto con la possibilità di identificare l’utente anche tramite sim e carta di credito. «Ma se questo impedirebbe a piccoli esercenti di fornire il servizio, meglio eliminare qualsiasi obbligo», propone Scorza. Bisogna considerare anche le caratteristiche del mercato italiano: da noi dominano piccoli esercenti non collegati tra loro. Un sistema di identificazione complesso è più alla portata di catene di bar, come quelle diffuse in altri Paesi.

In ogni caso, anche obblighi più chiari e un disegno condiviso da parte delle istituzioni sarebbero un grosso passo avanti rispetto all’attuale quadro, frammisto di ambiguità normativa e di disinteresse per lo sviluppo di internet.

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