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Tra Global Forum e contestazioni, si dimenticano i problemi reali

16 Marzo 2001

Tra Global Forum e contestazioni, si dimenticano i problemi reali

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Spingono i media e si sprecano gli stereotipi: come lavorare insieme per un futuro digitale positivo per tutti?

È in corso di svolgimento a Napoli il cosiddetto Global Forum sull’e-government. Oltre 120 delegazioni di governo dei paesi Onu chiamati a discutere al San Carlo e a Palazzo Reale delle politiche di sviluppo dei servizi telematici per i cittadini, di digital divide, di accesso universale. Delle iniziative e dei progetti, su scala locale come pure mondiale, che sostengono la penetrazione della società dell’informazione alle soglie del terzo millennio. Evento che va però provocando una marea di proteste e contro-eventi: transenne, controlli e poliziotti in tenuta antisommossa, con una “zona rossa” in pieno centro e la presenza di svariate migliaia di contestatori. Come ha scritto qualcuno, “girano il mondo insieme le grandi conferenza mondiali sulla globalizzazione e il popolo di chi si oppone ai ‘governi elettronici’, al ‘saccheggio economico dei paesi poveri’. Si
incontrano e si scontrano nelle città che spesso diventano simbolo della rivolta, come è accaduto a Seattle”. Ma anche uno scenario fin troppo ovvio e scontato, foraggiato a spron battuto dai media ancor meglio e prima che dagli stessi protagonisti sul campo. A dimostrazione che, forse soprattutto nell’era digitale, diviene sempre più facile rinchiudersi in stereotipi preconfezionati e invece più difficile confrontarsi su problemi reali, concreti, quotidiani.

Il ministro Bassanini, ad esempio, si vanta del fatto che l’Italia abbia formalmente implementato la firma digitale ancora prima degli Stati Uniti. E che sia in procinto di lanciare la carta d’identità elettronica, subito dopo la Finlandia, e comunque prima di altre nazioni. A ben vedere però tali iniziative pongono più problemi di quanti ne vorrebbero risolvere. Come è stato chiaramente messo in luce oltreoceano, nel caso della carta d’identità elettronica una delle noti dolenti sta nella centralizzazione dei dati personali in un unico database nazionale, prerequisito indispensabile per il rilascio dell’ID. Chi ne verifica la corretta gestione? Quali i rischi per la privacy dei singoli? Ed è forse così difficile modificare i chip dell’ID elettronico? Siamo davvero certi che ciò comporti velocizzazioni burocratiche e non ulteriori discriminazioni sulla base di dati, corretti o meno che siano, inseriti nel chip, e quindi “indiscutibili”? Insomma, controlla i controllori?

Il punto caldo è la giusta tutela dei diritti individuali contro un uso pervasivo e ambiguo della tecnologia. Per tacere degli ovvi limiti delle sue applicazioni, come dimostrano le ripetute incursioni in siti iper-protetti. E proprio in tema di sicurezza rientrano i dubbi dell’altra iniziativa “qualificante”, la firma digitale. La quale, tra l’altro, potrebbe perfino rivelarsi controproducente a fronte della scarsa presenza online dell’imprenditoria italiana. E perché mai adoperarsi per stimolare l’e-commerce, tralasciando spesso le esigenze dei cittadini? Certo, questi oggi possono richiedere documenti e certificati anch’essi in formato digitale e non più cartaceo. Ma al di là di qualche sveltimento burocratico, quali gli strumenti attivati per stimolarne la concreta partecipazione al quotidiano socio-politico? Quali le iniziative tese a riempire quel digital divide che in Italia come altrove rimane sotto gli occhi di tutti? O meglio, di chi voglia toccare con mano l’attuale realtà della cosiddetta democrazia elettronica.

Un panorama che ripercorre la questione vista dagli USA, dove lo spartiacque elettronico rispecchia quello sociale, economico che impera più o meno da sempre. Giusto per citare qualche dato, mentre il 96 per cento degli statunitensi ha il telefono, nelle riserve indiane la percentuale scende al 40, mentre in alcuni avamposti dei villaggi Navajo si toccano minimi del 17 per cento. Passando agli Afro-americani, oltre l’80 per cento di quanti guadagno oltre 90.000 dollari l’anno usa regolarmente Internet, mentre ciò accade solo per l’11 per cento di quanti registrano entrate inferiori ai 15.000 dollari annuali. Sulla falsariga di tali cifre, poco visibili nei media, si sono snodate negli anni scorsi le iniziative volute dall’amministrazione Clinton, e certamente meno in futuro per il disinteresse del nuovo presidente. Ma dai Net Day a megaconvegni e documenti sul digital divide, gran parte degli sforzi sono rimasti per lo più finalizzati alla costruzione di un’immagine pubblica positiva, lasciando spesso a se stesse le comunità meno servite. È ad esempio il caso del Comanche Language Project, voluto dal National Indian Telecommunication Institute di Albuquerque, New Mexico. O del recente lancio di KUYI, emittente in FM nel deserto della Hopi Reservation in Arizona. Iniziative sovvenzionate in proprio, con i vari comitati che lottano per ottenere qualche spicciolo pubblico o riduzioni dalle compagnie telefoniche onde avere la connessione a Internet in aree rurali, magari tramite cellulari e satelliti.

Come risponde a tutto ciò il “popolo di Seattle” (altra inopportuna etichettatura dei media)? Replica un portavoce delle contro-vertice napoletano: “Vogliamo creare confusione attorno al Forum, vogliamo che non si capisca più cos’è ufficiale e cosa no”. Proseguono così le parodie e i depistaggi inseriti quotidianamente su ocse.org, “sito-pirata” registrato dagli attivisti tre mesi addietro beffando l’omonimo organismo internazionale. E in contemporanea con manifestazioni in loco, si avvia l’ennesimo netstrike o corteo telematico che dir si voglia, stavolta mirato ad intasare i siti dove si comprano e si vendono azioni (noto come trading online). Certo, iniziative creative e del tutto necessarie contro il potere della globalizzazione. Attenzione però. Da una parte tutto ciò viene spinto e anticipato dalle testate d’informazione, assetate più che mai di slogan ed azioni ad effetto, nel tipico stile della società dello spettacolo. Dalla calata del subcomandante Marcos a Mexico City dei giorni scorsi alle peregrinazioni intorno al globo del “popolo di Seattle”, si respira un’aria stantia e manipolatrice che lascia poco spazio alla strada del cambiamento concreto.

Nel caso del Global Forum, ad esempio, entrambe le fazioni paiono voler tralasciare le tematiche intorno alla partecipazione collettiva e i rischi di controllo sociale innescati dall’era digitale. In questo caso forse gioverebbe a tutti, anziché la contrapposizione basata su slogan ormai ritriti, attivare forme di collaborazione propositiva. Non a caso tra le oltre 800 schede che illustrano l’avvento dell’e-government nel mondo presenti nel sito del Forum ce ne sono molte dedicate alle organizzazioni per i diritti civili online, dalla storica EFF a CDT e CPSR. E se gli autori del sito clonato ocse.org accettassero l’invito ad intervenire dal palco del Forum, bè, questa sarebbe tutt’altro che una trappola di “tolleranza repressiva”. Piuttosto, la riprova che è possibile dialogare anche e soprattutto per realizzare un futuro digitale positivo e utile per tutti.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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