Perché mai Google e Microsoft si accapigliano per avere un pacchetto azionario dell’agonizzante AOL? E com’è che Mr. Murdoch ha sborsato ben 580 milioni di dollari per acquisire il social network MySpace.com? Più che di follie di mezza stagione, è il caso di un (relativamente recente) trend in atto: l’ibridazione continua tra content provider e carrier, il rimescolamento industriale per coprire più mercati contemporaneamente.
Le società puro high-tech vogliono rifarsi il trucco come media companies, e queste ultime puntano a mostrarsi delle web-aziende coi fiocchi e controfiocchi.
Certo, sul tutto soffia il vento di un rinnovato assalto a Wall Street, della nuova (mini) net-bubble che parecchi auspicano e coltivano. Ma soprattutto, gli attori più scaltri vanno fiutando una tendenza fin troppo evidente: l’atomizzazione dei contenuti in bit digitali da trasferire tramite device e tecnologie le più disparate comporta strategie a tutto campo.
Ne consegue che le classiche linee di divisorie tra chi realizza e chi distribuisce i materiali online va scomparendo, o quantomeno facendosi assai più tenue.
Non c’è solo l’ascesa di Google pigliatutto a dimostrarlo, ma lo stesso matrimonio (fallito) tra Time Warner e AOL, come pure i continui sforzi (altrettanto inutili) di Microsoft nel produrrre contenuti in proprio.
Eppure, mentre a simili giganti in riconversione si affiancano start-up d’ogni fattura, viene da chiedersi: varrà veramente la pena di rimescolarsi a tal punto? E per il povero utente, tutta questa concorrenza sarà davvero benefica?
Intanto, vanno sottolineate le manovre avviate fin dall’estate dalla News Corp.: dopo il lancio di Fox Interactive, sono entrati in scuderia IGN Entertainment, gestore di siti che vendono video games e altri tipi di intrattenimento, e Scout Media, che cura l’omonimo super-portale sportivo. E ora arriva l’acquisizione della rete sociale veicolata da MySpace.com, assai popolare tra i teenager statunitensi, con oltre 33 milioni di iscritti.
Strategia aggressiva e a tutto campo, dunque, quella di Rupert Murdoch, dopo essere rimasto sostanzialmente alla finestra nell’area digitale. Ma anche sorprendente e, sostengono i soliti critici, non poco rischiosa, soprattutto rispetto a MySpace.com: con appena due anni di vita, attira un pubblico volatile per natura e deve affrontare una concorrenza spietata, da Friendster a Flickr, per non citare l’odierna varietà dell’intrattenimento offline.
Nell’inesauribile ricerca di “beccare” l’audience nel posto (o medium) giusto, da attrarre con musica, dating o giochi per poi proporre super-pubblicità mirate, può succedere di sperperare ingenti denari ed energie in una rincorsa continua, con poco spazio e tempo per ritorni consistenti.
Certo, nelle parole dello stesso moghul dei media, “MySpace è appiccicoso, divertente e destinato a generare profitti”, suscitando in tal senso l’accordo di alcuni analisti di settore. Tuttavia, oggi gran parte di internet sembra più interessata a imporsi come una sorta di “cyburbia”, ovvero, riprendendo Paul Saffo dell’Institute for the Future di Palo Alto, “una vasta, arida pianura dove la gente passa il tempo a guardare le fotografie degli altri e delle future star”.
Pubblico elusivo, appunto, quello giovanile, immerso com’è nel mare magnum del presente multimediale, più interessato ad acciuffare (o a precedere, marketing sotterraneo permettendo) i trend all’orizzonte che a fare clic su improbabili spot interattivi. Dove la popolarità è qualcosa di ineffabile, pronta a trasferirsi altrove al minimo segno di attrito o anche solo per via di una mob-action d’avanguardia, o percepita come tale.
A parte il fatto di riuscire a immaginare uno come Murdoch avere delle affinità reali con una massa di teenager amante di musica sfrenata e cyber-goliardie varie.
Intanto da qualche tempo l’AOL di antica memoria, o forse meglio: quel che ne rimane, è alla ricerca di acquirenti danarosi, visto il flop dell’abbraccio iper-costoso avviato con Time Warner nel 2000.
Notizia fresca, tra i possibili contendenti ha deciso di mollare Yahoo!, rivela il Wall Street Journal: Time Warner aveva intenzione di mantenere la maggioranza gestionale e non ha voluto accettare il pagamento in titoli borsistici: il 20% di azioni Yahoo! contro l’80% di quelle AOL, riconoscendo così a quest’ultima un valore nominale sui 13 miliardi di dollari.
La decisione, basata anche su possibili interventi dell’antitrust, lascia così campo aperto agli altri due pescecani in lizza, Microsoft e Google, le quali pare che aspettino a giorni la replica dei boss di Time Warner su quale dei due sarà il prescelto per le “trattative esclusive”.
Ovviamente anche qui non poteva mancare lo zampino di Murdoch, il quale ha comunque dichiarato di aver soltanto “dato un’occhiata” al possibile ingresso in AOL, aggiungendo “ma non mi aspetto che ne venga fuori nulla”.
Rispetto al testa-a-testa in corso, sembra che l’eventuale accordo AOL-Microsoft ruoti intorno a una partnership di basso livello piuttosto che a una vera e propria joint venture, mentre anche Google si accontenterebbe di un pacchetto minoranza, magari con il ventilato appoggio del colosso del via cavo Comcast, a conferma del rimescolamento continuo di cui sopra. O forse meglio, del tentativo di occupare spazi a destra e a manca sperando che almeno uno sia quello giusto.
Manovre obbligate, si badi bene, per tener testa alla differenziazione dell’intrattenimento odierna e ancora più del prossimo futuro. Dove non è affatto detto che i soliti nomi abbiano poi la meglio e in attesa di veder emergere gli immancabili nuovi soggetti.
E, quel che più conta, rimanendo attenti al “potere d’acquisto” ormai raggiunto da noi singoli utenti, fidando nell’elasticità e nella varietà di offerte che potrebbero rendere rapidamente obsoleto questo scenario di mega-acquisizioni.
Come ci ha insegnato la storia della Rete finora, i conglomerati raramente hanno successo (in campana, Google!) e la killer application in arrivo potrebbe davvero essere delle
mini-serie che durano di meno di minuto trasmesse sui cellulari di tutto il mondo.
Oppure, chissà…