Mi riaggancio alla notizia anticipata dall’Avv.Annarita Gili su queste colonne, per un approfondimento, qualche commento e qualche riflessione dal punto di vista marketing.
Per chi non avesse letto la notizia, ve la riassumo.
La triste storia della vacca e della sarta
C’era una volta, nella ridente regione francese del Drôme, una Milka che faceva la sarta.
Un lavoro di tutta la vita, coronato dall’apertura, negli anni, di due negozi di sartoria. Una vita che non aveva sentito il bisogno di Internet.
Poi la Rete è arrivata nella sua vita, per colpa di un figlio progressista che le ha fatto dono del dominio milka.fr.
Milka (la sarta) ha sofferto, per colpa della Rete.
A causa di una causa che le ha intentato la Kraft – proprietaria del marchio Milka, quello della mucca (o, con una terminologia più zootecnicamente correct, vacca da latte).
Ai suoi 58 anni, Milka la sarta avrebbe probabilmente fatto volentieri a meno di questa grana, ma per qualche suo ben fondato (immagino) motivo, ha deciso di tener duro e di opporsi alle richieste della multinazionale. E la causa ha prosperato, davanti al tribunale di Nanterre.
Richieste incrociate di danni
L’azienda statunitense l’ha buttata giù dura, accusando la sarta di cyber-squatting, di avere cioè “okkupato” uno spazio internettiano di naturale proprietà della vacca dal colore alieno.
Accusandola di averle causato, piccola artigiana com’era, un danno economico e d’immagine al proprio business dolciario.
Naturale quindi che la Kraft, quella delle sottilette, chiedesse al tribunale di punire la Milka, quella dell’ago e del filo.
Di qui la richiesta di ottenere il dominio, a prescindere dal fatto che Milka Budimir l’avesse registrato anteriormente. Non solo: a seguire anche la richiesta di condannare Milka la sarta al pagamento dei danni arrecati all’azienda.
Una richiesta di danni, va comunque detto, che loro per primi non sembrano aver preso troppo sul serio, presentando un conto dall’importo di (soli) 3.500 euro di danni e 3.000 Euro a titolo di indennità procedurali.
La sarta Budimir ha contrattaccato. Sostenendo di esser lei la danneggiata, a causa delle sconsiderate attività di Kraft.
Sostenendo di aver subito un rilevante danno di immagine, provocato dallo “sfruttamento promozionale ridicolo e degradante del nome Milka”, dallo sconsiderato uso di mucche, marmotte ed altri animaletti ridanciani. Uno zoo surreale che, associato al nome della sarta francese, non poteva che vulnerarne immagine e business. Di conseguenza, non solo la richiesta di mantenere il proprio dominio, registrato già nel lontano Natale 2001, ma di ottenere che il suo nome non fosse più affisso, in comunicazione, su una vacca.
E, a titolo di risarcimento, anche la richiesta di 80,000 Euro per i danni subiti.
Condannata!
Visti i fatti e sentite le parti, il tribunale ha deciso di dare ragione all’azienda cioccolatiera, sostenendo che “appropriandosi del dominio milka.fr e utilizzandolo, la signora Budimir ha fatto un uso ingiustificato di marchio notorio, di proprietà di Kraft”. Rigettando inoltre la richiesta di ripulire la vacca dal nome Milka, marchio che “esisteva da ben prima che nascesse la Signora Budimir” e decretando che l’omonimia tra la sarta e la vacca fosse una pura coincidenza, e che lo sfruttamento del nome Milka da parte di Kraft Foods non avesse portato “danno alcuno” alla sarta di provincia.
A Milka, quella della sartoria, è andata quindi male.
Condannata a cedere il dominio alla Kraft entro 30 giorni. Quanto ai danni, il giudice non ha ritenuto opportuno assegnarli, tranne che per il pagamento delle spese processuali a carico della sarta.
I grandi hanno più diritti dei piccoli?
Viene quindi riconfermata una tendenza in atto da tempo – quella che vede prevalere il diritto della marca famosa sopra il diritto dello sconosciuto e che ritiene sempre più irrilevante la precedenza nella registrazione.
Sostanzialmente, l’idea sembra essere che una marca nota abbia un diritto naturale al dominio corrispondente al suo nome. Diritto valido a prescindere che l’abbia registrato o meno. O che un’altra persona, anche se dotata di un nome proprio o aziendale omonimo l’abbia registrato per primo. La marca famosa può quindi dire all’individuo o alla marca più piccola “fatti in là, e molla il dominio, con le buone o con le cattive, che quella è roba mia”. Non conta chi estrae per primo, conta chi ha la pistola più grossa.
Il trend è comunque in atto da tempo e molti lettori ricorderanno il caso del Timbrificio Armani e del più famoso sarto omonimo che si disputarono il dominio (si vedano le discussioni disponibili nell’archivio di mlist). O forse qualcuno ricorderà lo sfortunato caso del signor Barbieri (noto editore italiano di libri sacri) che, reo di aver usato il suo nome su Internet, si vide arrivare una minacciosissima lettera intimidatoria da parte di Mattel, detentrice del marchio Barbie (r) i cui sofisticati (ma stupidi) sistemi di ricerca automatica avevano evidentemente individuato nel quasi omonimo signor Barbieri (www.barbierieditore.com) una minaccia di uso non autorizzato del marchio (registrato) della bambola più famosa del mondo.
Giusto o sbagliato?
La mia anima marketing mi fa dire che da un certo punto di vista la cosa ha un senso.
È ovvio che la stragrande maggioranza delle persone che vogliono accedere al sito milka.fr è alla ricerca del sito del cioccolato viola. E, nell’ottica di dare agli utenti/consumatori ciò che cercano, sarebbe naturale privilegiare il marchio noto rispetto alla sarta ignota al di fuori della ristretta sfera di influenza dei suoi due punti vendita.
D’altra parte, il mio lato personale mi fa trovare fastidiosa questa specie di asimmetria del diritto, dove i diritti dei forti sembrano essere più validi dei diritti dei piccini.
Ma che volete. È il business, bellezza.
In amore e in guerra tutto è lecito, e nel marketing internazionale non c’è spazio per le sartine di provincia.
Meglio prepararsi al futuro
A fronte di questo, mi permetto di suggerire il lancio di nuovi servizi online (vedrei molto bene Google) destinati ai futuri genitori.
Introducendo il cognome del padre e della madre e la lista di nomi propri che si vorrebbero dare al futuro infante, il database valuterebbe in tempo reale il rischio di cause legali che aziende con nomi o marchi omonimi potrebbero intentare al piccino che osasse, da grande, registrare un suo dominio.
Anche perché non si può escludere che, se si va avanti di questo passo, il semplice fatto di portare un nome e un cognome che possano dare adito a confusione con marchi noti venga valutato in grado arrecare danni commerciali e di immagine all’azienda. Meglio quindi dare ai figli un nome che non sia, un domani, causa di controversie legali. Prevenire è meglio che finire in tribunale…