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Storie che ci aiutano ad addomesticare la rete

31 Agosto 2010

Storie che ci aiutano ad addomesticare la rete

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Una ragazza inglese fa arrivare riviste in lingua al cugino bloccato in un ospedale italiano. Una mamma chiede il permesso di riprendere i figli altrui in spiaggia e premette di non caricare le foto su internet. È il web che cala, un po' per volta, nella nostra quotidianità

Le storie della rete che sorprendono di più sono quelle più prossime a te. Quelle che emergono dalle routine della tua vita quotidiana, che sono legate alle tue micro attività, ai luoghi che frequenti, alle persone che conosci. Quelle che ti saltano addosso spontaneamente mentre lavori in ufficio, quando ti rilassi al mare o quando sei a cena con gli amici. Quelle che raccontano di come la rete sia diventata un luogo comune, qualcosa che viene dato per scontato, un universo di riferimento per gli altri che diventa tema di conversazione al bar, durante una cena, sull’autobus… come le partite di calcio il lunedì mattina. Se una volta l’adagio era «l’ha detto la televisione» oggi assomiglia di più a «l’ho letto su Facebook». La Rete offre spunti di notiziabilità per le micro conversazioni quotidiane e, al di là dei tecnicismi, comincia a farsi cultura condivisa a partire dal racconto delle esperienze che entra nella nostra giornata.

In ospedale

Sono ad esempio quelle storie che ti mostrano le potenzialità che la Rete e i suoi linguaggi hanno. Potenzialità che sono tutte lì, pronte ad esprimersi quando meno te le aspetti. Potenzialità tutte già presenti perché previste dalle possibilità tecniche e dalle forme culturali che le circondano. Leggi talvolta in giro – nei trafiletti di giornali che riportano interviste ad alcuni guru del Web, nei saggi divulgativi, nei siti “sapienti”, figli di quella cultura un po’ erede delle utopie panottimiste alla Pierre Lévy – che la rete esprime solidarietà, mette in moto le intelligenze, trova risorse collettive per tradurre quei pensieri che riversiamo nei blog, nei siti di social network in azioni concrete. Eppure è con stupore che guardando gli ultimi post della pagina non ufficiale su Facebook della mia Università di Urbino ho letto la richiesta di Emily Dawrant, ragazza di Sowerby Bridge nel West Yorkshire, che usa la piattaforma per lanciare l’equivalente di un messaggio nella bottiglia.

Emily comincia così: «This might sound like a strange question but is university anywhere near Urbino hospital?» Scrive che suo cugino di vent’anni si trova in ospedale a Urbino e non parla una parola d’italiano; che resterà ancora una decina di giorni per delle cure intensive e se qualcuno può fargli avere un libro o dei giornali in inglese. Qualcuno legge e va a trovare Steven, il cugino di Emily, che sta al secondo piano con la mamma vicino, e  porta delle riviste in inglese di videogiochi. La solidarietà diventa diffusa nell’epoca del web che si fa sociale, è frutto delle semplici connessioni di Rete (partecipare a una pagina su Facebook) e della localizzazione dell’azione (essere a Urbino). Un gesto mediato diventa un gesto immediato. Una piccola utopia che si realizza.

In spiaggia

Oppure sono quelle storie che ti spiegano le preoccupazioni che le persone hanno dello stato di sovraesposizione che la rete produce e le conseguenze nelle nostre vite di quei comportamenti che hanno a che fare con il rapporto tra vita online e privacy. Come quando una vicina di ombrellone, che fa un vulcano di sabbia con alcuni bambini in uno di quei giochi estivi per passare il tempo quando le nuvole coprono il sole, estrae una macchina fotografica e riprende i bimbi festosi mentre giocano con il fumo che esce dalla piccola camera di combustione. Poi si blocca. Si gira verso i genitori dei bambini che stanno seguendo divertiti in piedi alle loro spalle e chiede loro se può fotografare e riprendere in video i loro figli assieme ai suoi. «Sapete», dice, «è un fatto mio, chiedo sempre… perché ci tengo a precisare che non metto i video o le foto su internet. Quelle mie e di mio marito le metto nei vari social ma non quelle delle mie figlie, è troppo presto. Con quel che si vede su Facebook. Le foto le faccio per me, magari poi ve le spedisco. Comunque il bimbo piccolo non lo riprendo».

Sì perché l’abitudine che abbiamo a riprendere la realtà che ci circonda con dispositivi facili e immediati come i cellulari e le piccole fotocamere per poi condividerla online è entrata non solo nell’immaginario condiviso, ma nelle pratiche quotidiane degli spazi che attraversiamo e dei momenti che viviamo. Ma chi di noi chiede l’autorizzazione a un amico o a un conoscente quando gli fa una foto o un video pensando, poi, di condividerla sulla propria bacheca o su YouTube? Chi, da fotografato, pretende di sapere quale uso si farà della sua immagine? Dobbiamo imparare a immaginare una realtà che ci circonda in cui il fatto di essere in pubblico significa essere potenzialmente pubblicabili. La naturalezza con cui gli adolescenti, ad esempio, si fotografano e riprendono e mettono in circolo le loro immagini in modo istantaneo e a-problematico ci racconta di una sensibilità sociale verso queste pratiche ancora da mettere a fuoco, che sviluppiamo con le esperienze che facciamo (più quelle negative che positive). Lo stiamo imparando a nostre spese anche dalla controversa posizione che ha Mark Zuckerberg sulla privacy online, e, dopo la prima fase di tecno entusiasmo da iperpresenza, i dubbi sul fatto che non tutto dovrebbe essere “esposto” online comincia a serpeggiare.

È anche attraverso le piccole storie che ci vengono incontro nella dimensione quotidiana e domestica che stiamo imparando ad addomesticare la rete. Accanto a saggi scientifici, dotti articoli sulla stampa, interrogazioni politiche ascoltate nei media, si è introdotto un passa parola minuto che, tra chiacchiera e pettegolezzo, impara a trattare il tema con tutta la serietà che l’averlo reso qualcosa di familiare e vicino richiede.

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