Sempre preoccuparsi dei cattivi che arriveranno dopo
Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
— Matteo 7:7
Ho sempre odiato l’espressione dire la verità al potere, perché presume che tutto il potere sia cattivo. Dovrebbe essere piuttosto dire la verità al potere quando il potere è falso o dannoso, o anche solo assurdo.
E io ero nel campo dell’assurdo quando mi sono ritrovata a fissare una scultura di ghiaccio di una donna dal cui seno stava gocciolando White Russian, una miscela di Kahlúa e panna. Ero stata invitata alla festa per il baby shower del fondatore di Google, Sergey Brin e sua moglie, Anne Wojcicki, che nel 2008 stavano aspettando il loro primo figlio. Naturalmente, avevano deciso di festeggiare facendo una grande festa nel quartiere industriale di San Francisco. Prima di poter alzare un bicchiere verso il capezzolo ghiacciato e bere, gli ospiti dovevano varcare una giungla di foto appese di bambini di Sergey e Anne alla porta. L’ingresso del club era presidiato dal tipo di donne effervescenti e iper-organizzate in maniera innaturale, che sembravano sempre gironzolare attorno ai ricchi della Silicon Valley.
Vuoi un pannolino? O una tutina?, mi ha chiesto una giovane donna con i capelli biondi incredibilmente ondeggianti e un sorriso molto sincero, come se la domanda non fosse per niente strana. Ma eravamo a San Francisco, dopotutto, dove questo tipo di eventi sembravano essere molto popolari tra i cittadini. Provo sempre a non giudicare, anche quando lo sto già facendo.
Per la cronaca: stavo giudicando in modo molto pesante.
Dignità e White Russian
Ma era peggio di un semplice caso di preferenze sessuali. Questa giovane donna stava chiedendo la mia preferenza riguardo all’abbigliamento del bambino, perché quella era la parte divertente della serata. Gli ospiti potevano indossare un pannolino con una spilla comica oversize, un cappello da neonato con un campanello o una tutina per adulti accessoriata con un orsacchiotto e un lecca-lecca. Ho declinato tutto all’istante, i capelli della donna hanno smesso di ondeggiare e il sorriso si è trasformato in una smorfia. Tutti devono indossarne uno, ha insistito. Tutti ne stanno indossando uno!
Non io! Sono entrata alla festa prima che potesse posarmi addosso una mano piena di talco e ho trovato alcune delle persone più influenti nel settore della tecnologia e dei media, tutte vestite come neonati. Brin indossava una tutina mentre pattinava sulle rotelle per la stanza. Wendi Deng, allora moglie del titano di News Corp Rupert Murdoch (che avevo cominciato a chiamare Zio Satana), aveva scelto un pannolino e un lecca-lecca. Deng mi aveva chiesto rapidamente come stesse, cosa disturbante dato che indossava dei pantaloni in pelle e un paio stivaletti con i tacchi sotto i giganteschi Pampers, e la situazione era così fuori luogo che avrei preferito non vivere quel momento (se posso essere sincera, mai e poi mai nella vita). Per fortuna, Zio Satana non era presente, quindi ho evitato quella particolare immagine visiva. E, altrettanto per fortuna, in un angolo, l’allora sindaco Gavin Newsom, che si era avvicinato ai fondatori di Google, indossava un completo normale.
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Come sei riuscito a evitare di indossare il costume?, ho chiesto al politico alto e bello, che aveva legalizzato il matrimonio gay a San Francisco nel 2004 e sarebbe diventato governatore della California nel 2019.
Sapevo che saresti stata qui, che mi avresti scattato una foto e che l’avresti messa ovunque su Internet. A quel punto la mia carriera politica sarebbe stata rovinata perché avrei indossato un pannolino solo perché me l’aveva chiesto uno che era diventato miliardario grazie a Internet, è stata la risposta di Newsom, che mi piaceva perché capiva sempre l’assurdità di queste persone. Come sei riuscita a evitarlo?
Dignità, ho risposto. Facciamo un brindisi?
E così abbiamo alzato il bicchiere per raccogliere il latte aromatizzato al liquore dal capezzolo ghiacciato. Dignità un corno. Era, naturalmente, delizioso.
Una startup speciale
Il mio viaggio verso questo momento surreale era iniziato nel 1999, quando il famoso investitore John Doerr mi ha segnalato la startup. Doerr aveva investito 12,5 milioni di dollari in una fase iniziale di finanziamento di Google, insieme a 12,5 milioni di dollari da parte di Mike Moritz di Sequoia Capital. Il fatto che la coppia di maggiori rivali tra gli investitori avesse cooperato era insolito, ed entrambi erano entrati nel consiglio di amministrazione di Google. Parlare con il brillante Doerr aveva iniziato a piacermi, anche se spesso mi chiamava vicino alla scadenza di uno scoop legato a uno dei suoi molti investimenti e diceva: Sei sicura di avere ragione?
Avevo ragione – l’idea di non averne mi terrorizzava – e il fatto che avesse fatto leva sull’insicurezza naturale di una giornalista che avrebbe potuto mancare di accuratezza mi faceva ridere perché era uno dei più seri e autoironici del gruppo. Di sicuro avrebbe potuto essere più arrogante, dato che aveva stabilito un record leggendario con gli investimenti che includevano Amazon, Intuit e Netscape. Quindi, quando dava suggerimenti, lo ascoltavo, anche se le sue scommesse non sempre si rivelavano vincenti. Ma Doerr aveva insistito affinché incontrassi Sergey Brin e Larry Page, la coppia di studenti di dottorato di Stanford che aveva fondato l’azienda all’università nel 1998. Sono un po’ più strani delle persone che hai incontrato finora, ha detto Doerr, ma sono davvero speciali.
Ero scettica all’inizio, perché avevo seguito diversi tentativi di ricerca che erano morti presto. L’idea principale di Google del PageRank, che misurava l’importanza delle pagine web, sembrava particolarmente nerd. La pertinenza era la chiave, e Google aveva annotato in una dichiarazione che le loro offerte erano calcolate risolvendo un’equazione di 500 milioni di variabili e due miliardi di termini.
Due fondatori diversi
È diverso, ha insistito Doerr. Fidati di me. Quindi. mi ha presentato i giovani imprenditori, che ho soprannominato subito i gemelli, anche se non erano per niente simili. Page era brusco, mentre Brin non smetteva mai di parlare. Page era serio, mentre Brin aveva il tocco comico. Page era tagliente, mentre Brin puntava alla dolcezza. Entrambi erano veramente strani, e lo capivi subito, proprio come aveva detto Doerr. A un certo punto, Page aveva iniziato a indossare intorno al collo un monitor che rilevava il livello di inquinamento per assicurarsi di non inalare roba che proveniva dall’atmosfera e che avrebbe potuto ucciderlo. Al contrario, Brin si vestiva sempre come se stesse per andare a fare surf o unirsi a una classe di yoga. Infatti, a volte si metteva nella posizione del cane a testa in giù mentre gli parlavi.
Tuttavia, i due fondatori condividevano una serie di stranezze nelle abitudini e nel modo di parlare, e abbracciavano entrambi una narrativa imprenditoriale classica, avendo trasferito la loro startup nel garage vicino a casa di una dirigente di marketing di livello inferiore presso l’azienda Intel. Si chiamava Susan Wojcicki. Voleva farsi pagare 1.700 dollari al mese per lo spazio, anche se prima aveva chiesto opzioni sulle azioni. I gemelli avevano rifiutato di pagare l’affitto, ma lei ha ottenuto molto di più in seguito, quando è diventata una dipendente a tempo pieno. Wojcicki, che sembrava la tipica mamma che si occupa dei figli (cosa che era), avrebbe presto lasciato Intel e si sarebbe unita a Google come responsabile marketing. E questo è stato un colpo di fortuna per me, perché è diventata la persona normale in Google che poteva spiegarmi che cosa stava succedendo nel circo in cui si era trasformata l’azienda. Ho anche provato sollievo nell’avere accanto una donna – in realtà ce n’erano molte di più da Google che altrove – che ricopriva una posizione di relativo potere.
In pochi mesi, Google era diventata troppo grande e non poteva più continuare a operare nel garage. Dopo una breve permanenza in un piccolo ufficio nel centro di Palo Alto, l’azienda in rapida crescita, che allora aveva trenta dipendenti, si sarebbe poi trasferita al 2400 Bayshore Parkway a Mountain View. Wojcicki aveva negoziato il contratto d’affitto per i quarantaduemila metri quadrati che si sarebbero espansi e sarebbero diventati il quartier generale del famoso Googleplex, che si sarebbe ingrandito fino a milioni di metri quadrati in tutto il mondo. È stato a Bayshore che ho incontrato per la prima volta i gemelli, dopo che avevo guidato il mio furgone Honda per pranzare nella loro piccola mensa. Anche se era piccolo, Google era riuscito a ingaggiare Charlie Ayers, l’ex chef dei Grateful Dead. (Ayers ha guadagnato decine di milioni quando ha ricevuto delle opzioni sulle azioni). Il cibo che Charlie preparava era a dir poco delizioso, e i fondatori erano incredibilmente imbarazzanti, soprattutto Page, che da amministratore delegato non sembrava entusiasta all’idea di essere il volto pubblico dell’azienda. Brin riempiva il silenzio, cercando di fare una serie di battute stupide che venivano capite circa il 46 per cento delle volte. Wojcicki era passata a salutarci e, da quel che ricordo, avere una conversazione funzionale è stato un momento di dolce sollievo.
Ogni idea è possibile
Stavo cercando, come fanno tutti i reporter, qualsiasi tipo di aggancio per mettere su una grande storia da far finire in copertina. Un mucchio di palloni colorati e monopattini sparsi in un ufficio non sarebbe stato sufficiente. Stavo cercando qualcosa di speciale per convincere i miei editori che valesse la pena scrivere un bell’articolo sui gemelli, ma era evidente che non erano in grado nemmeno di giocare ai giochi di pubbliche relazioni più basilari. Era ovvio che i due fondatori fossero brillanti, e credevano fermamente che ogni idea fosse possibile, anche se alcune erano decisamente folli. Nel corso degli anni, avevano immaginato tantissime cose, dall’installazione di skilift sulle colline di San Francisco per aiutare i cittadini a spostarsi, alla costruzione di giganteschi mulini a vento alle Hawaii per produrre energia da usare per le auto volanti. Avevano immaginato chiatte nella baia di San Francisco che avrebbero funzionato come uno spazio interattivo dove le persone possono imparare nuove tecnologie e hanno trasformato quell’idea in realtà dal 2010 al 2012.
Il successo del loro motore di ricerca era così significativo e spiazzante che qualsiasi altra cosa avrebbero fatto in seguito sarebbe stata quasi insignificante al confronto. Lo pensavo come un database delle intenzioni umane, una definizione che mi è venuta in mente quando stavo aspettando nella lobby di uno dei loro edifici, mentre guardavo una lista illuminata dei termini ricercati in quel momento (rimuovevano quelli correlati alla pornografia). Ho cercato di capire che cosa stesse cercando ogni persona che faceva una richiesta. A un certo punto, sono sfrecciate le parole cavallo, nuoto e picnic, e ho pensato a qualcuno da qualche parte che cercava di pianificare una bella giornata estiva. Google aveva anche un globo digitale rotante su uno schermo, con flussi di luci colorate diverse – ognuna rappresentava una domanda fatta da qualcuno sulla Terra – che esplodevano come riflettori a seconda di quante domande venivano fatte. Quando il globo mostrava le aree del mondo che stavano effettuando ricerche su Google, era evidente che molte zone non potevano partecipare perché mancava loro la connettività necessaria per accedere a Internet, mentre altre aree erano molto attive e visibilmente rappresentate. Abbiamo bisogno di più Internet in Africa, ha osservato Brin un giorno mentre entrambi stavamo fissando il globo digitale. Dobbiamo lavorarci su.
Un vero amministratore
Brin e Page avevano una sorta di devozione religiosa nei confronti della tecnologia, e sembrava che per loro il denaro non fosse mai la forza trainante, anche se presto lo sarebbe diventato. Una volta che avevano costruito il miglior motore di ricerca, al quale avrebbero poi unito la pubblicità online in una piattaforma di asta innovativa, hanno creato un business estremamente redditizio. Tra le molte aziende Internet create a un ritmo frenetico, quell’enorme profitto avrebbe presto fatto emergere Google facendolo distinguere da tutto il resto.
Un’altra mossa intelligente che solo poche aziende hanno fatto all’epoca è stata assumere un management professionale. Nel 2001, Google ha reclutato il noto leader della tecnologia Eric Schmidt affinché fosse, essenzialmente, l’adulto della stanza. Ex dirigente di Sun Microsystems, Schmidt aveva ottenuto grande successo nell’azienda, ma aveva incontrato difficoltà presso Novell, con sede in Utah. L’azienda era in declino poiché i suoi protocolli proprietari venivano gradualmente sostituiti da quelli aperti, e Schmidt era stato relegato ai margini, senza alcun riconoscimento. Il responsabile delle pubbliche relazioni, molto fedele a Schmidt, aveva spesso cercato di convincermi a viaggiare a Provo per parlare di Novell, ma il mio no, e quello del Journal, sono stati categorici. Quando però Doerr e Moritz hanno collegato Schmidt ai gemelli, sono scattate le scintille. Schmidt ha capito che formare un trio con Page e Brin era l’occasione della vita. Si è unito prima a Google come presidente del consiglio nel marzo del 2001, e nell’estate è stato nominato amministratore delegato.
Anche se Provo era stato un buco nell’acqua, ero felice di viaggiare a Mountain View per intervistare l’astuto Schmidt, che sapeva muoversi nell’ambiente della Silicon Valley in modo discreto, ma sapeva anche essere un po’ arrogante ed enfatico quando si trattava di argomenti importanti. Schmidt trasudava competenza e sicurezza, dipingendosi come colui che poteva accudire i delicati geni e portare ordine al caos. Page e Brin hanno ottenuto bei titoli, come presidente dei prodotti e presidente della tecnologia. È stata una mossa intelligente. Google ha fatto le cose per bene fin dall’inizio, adottando un marchio semplice ma allegro, un utilizzo intuitivo e un’efficacia totale. Ma soprattutto, aveva un prodotto vincente fin dall’inizio. Questo era il motivo per cui Page mi aveva sussurrato scherzando: Non dirglielo, mentre guardavo un grafico che era affisso alle pareti dell’ufficio.
Marchio su marchio
Si riferiva a un accordo di due anni tra Google e Yahoo, che prevedeva che Google fornisse il motore di ricerca per il portale web di Yahoo, che non disponeva di capacità di ricerca algoritmica. Yahoo, così come AOL, aveva cercato di acquistare Google. Quei contratti non si erano mai concretizzati, e Google ha scelto saggiamente di affittare la propria tecnologia. Come parte dell’accordo con il fornitore, il nome di Google, con le sue lettere colorate con colori primari, era prominentemente presente sul sito web di Yahoo, molto visitato.
In passato si era già verificato questo fenomeno assurdo in cui un marchio tecnologico si costruisce sulla base di un altro marchio. AOL aveva cavalcato la crescita di CompuServe acquistando pubblicità sul servizio. Lo stesso Yahoo aveva approfittato della popolarità della homepage di Netscape. Era come se la Coca-Cola avesse permesso alla Pepsi di mettere il suo nome sulle lattine, e la nuova economia si comportasse come se quello non fosse un grosso problema.
Il decollo
Ma è successo qualcosa di grande quando Yahoo ha scelto Google come suo motore di ricerca predefinito a metà del 2000, per aggiungerlo alla sua directory e alla sua guida di navigazione. I servizi di ricerca di Google aiutano le persone a trovare le informazioni che stanno cercando sul Web con livelli di facilità, velocità e precisione senza precedenti, ha detto Page nel comunicato stampa. Attraverso questa relazione, ora il vasto pubblico di Yahoo! beneficerà di un aumento della precisione e del rapido ritorno di risultati di ricerca di alta qualità.
E così è stato. Poiché mentre la crescita di Yahoo search powered by Google è aumentata di conseguenza, i numeri più grossi nel grafico erano quelli di Google.com e il suo iconico e contagiosamente affascinante pulsante Mi sento fortunato. Google ti dava esattamente quello che stavi cercando, tutto tramite l’algoritmo magico di PageRank. Il servizio era veloce, corretto e decisamente utile. Mentre guardavo la crescita tracciata per il marchio principale di Google affisso alle pareti dell’ufficio, era evidente che i clienti si stavano rapidamente spostando da Yahoo a Google.
Lo sanno?, ho chiesto a Page. Quello che stava per accadere era così ovvio che non potevo immaginare che Yahoo non se ne rendesse conto. E per me, quella era una storia molto interessante.
Uno Yang senza yin
Non credo, ha detto lui, sfoderando un sorriso sornione che talvolta lasciava emergere dal suo tipico volto da poker. Nonostante la sua goffaggine fisica e il suo modo di fare impacciato, Page era un abile operatore e, realmente, spietato. Mi ha guardata dritto negli occhi e ha aggiunto: Ma non dirglielo. Ovviamente, è stata la prima cosa che ho fatto. Quando sono arrivata alla mia auto nel parcheggio di Google, ho chiamato Jerry Yang, cofondatore e Chief Yahoo di Yahoo, con cui avevo sviluppato una relazione piccata ma amichevole, che non era molto diversa da quella tra due fratelli che tendono a litigare. Non avvertivo spesso le aziende, ma avevo visto questo scenario così tante volte che non potevo tenerlo per me. Devi farli uscire dalla tua piattaforma, ho detto, riferendomi al pericoloso accordo di licenza. Sembrano innocui, ma ti faranno fuori.
Yang ha riso di me, come spesso faceva. Mi ha spiegato che Yahoo stava facendo un sacco di soldi con la ricerca aggiuntiva in cambio della piccola tariffa che pagava per i servizi di Google. Ovviamente, l’azienda avrebbe lasciato andare la società di ricerca o l’avrebbe acquistata se fosse diventata una minaccia. Ha aiutato anche il fatto che Yahoo avesse acquisito una serie di azioni di Google, il 5 per cento della giovane azienda, come parte dell’accordo di ricerca, e sentiva di essere in una posizione dominante. In fondo, Yahoo rappresentava l’azienda più influente nel settore dei consumatori, mentre Google era semplicemente un elemento sulla pagina che poteva offrire tecnologia solo alle aziende con legami più saldi con la clientela. Yang aveva ragione a sentirsi fiducioso all’epoca e a ignorare le mie paranoie. A quel punto, era un miliardario. E sebbene le azioni di Yahoo fossero state danneggiate insieme a tutte le altre con la crisi, l’amministratore delegato Semel stava potenziando le aspirazioni mediatiche dell’azienda. In confronto, Google doveva sembrare un topo nerd.
Scacchi contro dama
Tuttavia, le ambizioni di Page sembravano infinite. Come dicevo spesso riguardo ai più brillanti imprenditori della Silicon Valley, sembrava di giocare agli scacchi di Spock mentre gli altri giocavano a dama. Nel 2002, la homepage di Google aveva un terzo di tutti i rinvii di ricerca globali, arrivandoci dall’1 per cento in appena due anni. Allo stesso tempo, Yahoo era sceso dal 46 per cento al 36 per cento. I vertici di Yahoo avevano il presentimento di dover tenere sotto controllo il loro destino tecnologico. Alla fine del 2002, Semel, che non aveva particolari abilità tecniche, ha capito la portata della sfida e ha comprato il rivale di ricerca di Google, Inktomi, per 235 milioni di dollari. Inktomi aveva fatto affari vendendo la sua tecnologia di ricerca senza marchio ad Amazon, MSN di Microsoft ed eBay, ma stava ancora lottando contro l’assalto di Google. Inoltre, Inktomi disponeva di una tecnologia di inclusione a pagamento che classificava gli inserzionisti in base alla loro rilevanza rispetto alle ricerche degli utenti, offrendo un servizio di qualità superiore nella presentazione dei risultati. Yahoo stava collaborando con un’azienda chiamata Overture, la quale aveva un approccio pay-per-placement che classificava i risultati di ricerca in base a chi pagava di più, rendendolo più redditizio per gli investitori, ma meno attraente per i consumatori. Per consolidare ulteriormente il vantaggio, Yahoo ha pagato anche 1,63 miliardi di dollari per acquistare Overture, soprattutto perché la spesa pubblicitaria online, composta essenzialmente da banner, era superata dalla spesa pubblicitaria per la ricerca online.
Purtroppo, Google aveva già conquistato il mercato, avendo lanciato AdWords nel 2000 e perfezionato il suo modello di asta a pagamento per clic, dove i marketer entravano in competizione per ottenere quel clic. AdSense l’ha seguito e ha permesso che sui siti ci fossero annunci mirati. In cima a tutto questo, Google stava rapidamente costruendo un’offerta irresistibile per i consumatori, dato che aveva lanciato una pagina di notizie automatica che era diventata popolare molto in fretta. Molte altre cose erano in arrivo, come e-mail, mappe, foto, video e blog. E i contenuti digitali, con un grande impulso nel download di libri e altri media nel crescente database di Google. Qualsiasi cosa può essere digitalizzata, pensavo molto spesso. Come quando Page mi ha mostrato una stanza nella sede centrale di Google piena di televisori e mi ha spiegato che Google stava sperimentando l’uso dei sottotitoli per tradurre i video in una forma ricercabile. Possedete i diritti degli spettacoli? Dovete possedere la proprietà intellettuale per farlo, gli ho detto. Mi ha guardato impassibile e ha continuato per la sua strada.
Google appare agli editori
In realtà, Google stava diventando un Borg che avrebbe risucchiato tutte le informazioni del mondo e poi le avrebbe sputate per profitto. E, alla fine, nessuno dei media sarebbe riuscito a resistere. Alla fine dell’estate del 2003, per esempio, Page, Wojcicki e quella che all’epoca era mia moglie, Megan Smith, sono volati a New York per incontrare le principali case editrici e parlare del piano di Google di scannerizzare tutti i libri del mondo, a cominciare da quelli fuori stampa. Cercavano una collaborazione e sono stati accolti con un disprezzo quasi totale, seguito da un rifiuto completo. In una strana coincidenza, quel giorno c’è stato un blackout importante a New York City e Page e Wojcicki non sono riusciti ad arrivare nelle loro camere d’albergo nei piani alti dei grattacieli. Alla fine, hanno raggiunto me e Megan nell’appartamento di mia madre al nono piano a Midtown, dove hanno bivaccato per terra.
Page era sia deluso sia confuso dal fatto che gli editori non avessero accettato la proposta di Google di aiutare a digitalizzare i loro contenuti. Ho cercato di spiegargli perché la proprietà intellettuale fosse così importante per le aziende mediatiche e che non potevi semplicemente prenderla senza conseguenze. E una volta che Google l’avesse fatto, nessun altro sarebbe stato in grado di permettersi di digitalizzare il materiale, quindi i creatori di contenuti e il loro lavoro sarebbero alla fine stati ostaggi della tecnologia e dell’accesso a essa. Google avrebbe dominato tutti i contenuti senza aver generato altro che il sistema di distribuzione. Agli occhi di Page, tutto questo era senza senso. Lui e molti altri nella società erano irremovibili sull’idea che tutte le informazioni dovessero essere raccolte e ordinate dai Googler per portare illuminazione alla razza umana e distribuzione per tutti. (Google sarebbe successivamente stato citato in giudizio dagli editori di libri, così come da molti altri nel settore dei media, casi che il colosso delle ricerche avrebbe alla fine vinto perché l’utilizzo era lecito).
Il timore di crescere
Page, in realtà, aveva molte preoccupazioni che condivideva con me, cosa che mi portava ad ammirarlo di più nonostante i suoi tratti decisi e bruschi e un tono che poteva rapidamente diventare quello arrogante di un nerd, un atteggiamento che si sarebbe esasperato nel tempo. A differenza di altri nel settore tecnologico, era poco interessato alla fama, e ho sempre avuto l’impressione che avrebbe preferito scomparire piuttosto che diventare più famoso. Si preoccupava anche dell’impatto dell’IPO di Google nel 2004 che avrebbe cambiato tutto e li avrebbe trasformati tutti all’istante in un’élite ricca. In una conferenza TED all’inizio del 2002 a Monterey, in California, cinque mesi prima dell’offerta, ci siamo seduti a un tavolo nel centro conferenze fino a tarda notte e abbiamo parlato del futuro di Google. Page era molto più aperto e riflessivo in quei giorni e, intelligente com’era, sapeva che quello che stava per arrivare era qualcosa che non riusciva a capire al cento per cento.
Schmidt amava le attenzioni che riceveva nell’essere in mezzo all’azione nella compagnia tecnologica più gettonata del momento, stringendo la mano a chiunque passasse nella folla esclusiva e flirtando incessantemente. Al contrario, Page evitava tali incontri e compariva solo quando strettamente necessario, mostrando quasi nessun filtro.
In quei giorni, abbiamo avuto molte discussioni perché spesso non capiva appieno le mosse che avrebbe successivamente padroneggiato. Avevo bisogno di capire dall’uomo che svolgeva un ruolo fondamentale nella creazione di Google che cosa stesse cercando di realizzare e quale problema stesse risolvendo. In quel momento, stava provando a capire come rendere pubblica l’azienda mantenendo un minimo di integrità, poiché sembrava detestare gli investment banker e tutto il teatrino che accompagnava un’IPO. Google sarebbe poi diventata pubblica attraverso un’inedita asta olandese che prevedeva la raccolta di offerte da parte degli investitori interessati per determinare il prezzo più alto a cui poter vendere le azioni. In un articolo del 2010 della Harvard Business Review intitolato “How I Did It: Google’s CEO on the Enduring Lessons of a Quirky IPO” (Come ho fatto: l’amministratore delegato di Google sulle lezioni durature di un’IPO stravagante), Schmidt ha spiegato la teoria:
So che può sembrare una sciocchezza, ma abbiamo deciso in modo definitivo per l’asta olandese dopo aver ricevuto una lettera da un’anziana – o almeno qualcuno che sosteneva di esserlo. Ha scritto qualcosa del genere: ‘Non capisco perché non posso guadagnare dalla vostra IPO come fanno i broker di borsa’.
Page era diffidente in merito a tutto questo, anche se mi aveva detto che sapeva di doverlo farlo per consentire ai dipendenti fedeli di incassare denaro. Ma temeva anche che uscendo allo scoperto potesse rovinare tutto e addirittura esprimeva il desiderio di mantenere l’azienda privata. Già allora, la Silicon Valley era disseminata di narcisisti che amavano attirare l’attenzione, che non avevano mai incontrato un’idea di cui non cercavano di prendersi il merito. Non Page. Non sorprende che lui e gli altri in Google insistessero nello stabilire un insieme di valori aziendali a cui l’azienda potesse attenersi mentre si dirigeva verso la stratosfera. I fondatori hanno deciso di utilizzare il motto Don’t be evil (Non essere cattivo), un concetto che era stato introdotto in precedenza tra gli ingegneri ed era anche un’affermazione contro i concorrenti come Microsoft, che i Googler criticavano perché non era trasparente con gli utenti.
Il vero cattivo
Quella società di software si trovava nel bel mezzo di un importante processo antitrust ed era diventata uno spauracchio per la Silicon Valley, che spesso denunciava Microsoft per essere un’azienda che aveva il dominio su tutte le altre perché le controllava. La parte ironica è che Google presto avrebbe dominato diventando il crocevia di tutto, de facto e indispensabile. Ma all’epoca, Google si vedeva come lo scaltro Han Solo di fronte a Darth Vader di Bill Gates.
Ero ancora sorpresa quando Page mi ha chiamata e mi ha chiesto aiuto per scrivere un saggio su questi sentimenti, incluso l’idea di Non essere cattivo, e spiegare a Wall Street quanto fossero diversi. Presumibilmente, ha avanzato quella richiesta perché conoscevo bene l’azienda. La mia allora moglie, Megan, ci lavorava e in passato era andata allo Space Camp a Huntsville, Alabama, con i gemelli, e anche con un giovane Elon Musk e la sua moglie di allora, Justine. Avevamo persino trascorso del tempo con Page e quella che era la sua fidanzata, la dirigente di Google Marissa Mayer. Google era un luogo in cui si mescolavano molte personalità da un punto di vista sia personale sia professionale. A un certo punto all’inizio, sembrava che tutti frequentassero qualcun altro che faceva parte dell’azienda, una situazione che sarebbe diventata un problema. Immagino che Page abbia pensato che fossi un’amica amorevole, o anche solo un’amica, anche se non ero né l’una né l’altra. Ero una giornalista che stava lavorando sull’azienda, e scrivere questo saggio sarebbe stato inappropriato. Mi sono tirata subito indietro. In seguito, quando mia moglie ha ottenuto posizioni più alte in Google, ho dovuto inserire link a lunghe dichiarazioni nei miei articoli. Alla fine, ho smesso del tutto di scrivere su Google.
Pensavo anche che l’idea stessa di Non essere cattivo fosse sia arrogante sia ingenua. Guardateci! Siamo eccentrici! E l’aspetto malvagio era rappresentato con troppa enfasi: le azioni problematiche fatte dalla tecnologia non si collocavano tra il benigno e l’odioso? Page ha trovato un altro giornalista più amichevole che l’avrebbe aiutato a scrivere il saggio, che era apparso nel prospetto IPO di Google in una lettera dei gemelli, che in parte recitava: Non essere cattivo. Crediamo fermamente che a lungo termine saremo meglio serviti, come azionisti e in tutti gli altri modi, da un’azienda che fa cose buone per il mondo, anche se rinunciamo ad alcuni guadagni nel breve termine. Certo, capisco bene l’ironia di quello che sarebbe successo tra le grandi aziende tecnologiche e la privacy dei dati, e come il potere di Google, che sapeva tutto, stesse iniziando a sembrare più minaccioso. Negli anni a venire, Google sarebbe stato sottoposto a crescenti pressioni riguardo al suo potere, simile a un monopolio, sulla ricerca e la sua capacità di schiacciare i concorrenti emergenti. C’erano preoccupazioni aggiuntive sulla sua egemonia sulla futura tecnologia come l’intelligenza artificiale.
La battaglia di Yahoo
Non per forza cattivo, ma decisamente inquietante. E veloce. Alcuni anni dopo, Google ha cercato di prendere il controllo della ricerca di Yahoo, dopo un tentativo non richiesto da parte di Microsoft di acquistare Yahoo per 45 miliardi di dollari all’inizio del 2008 mentre cercava di dare una spinta al proprio servizio di ricerca, Bing. Yahoo è riuscita a respingere l’amministratore delegato di Microsoft, Steve Ballmer, in una battaglia controversa ma dimenticabile che ho seguito attentamente. Alla fine del 2007, Google registrava il 63 per cento delle query globali, mentre Yahoo zoppicava poco sotto il 20 per cento. Per riprendersi, Yahoo ha cercato di correre tra le braccia di Google per stringere una partnership pubblicitaria sulla ricerca. Questa esternalizzazione avrebbe essenzialmente permesso a Google di controllare la pubblicità sulla ricerca e, di fatto, tutta la ricerca. Volevo impedire che si verificasse questo tipo di monopolio, e su questo ero irremovibile. Ho scritto sul mio sito All Things Digital:
E sebbene potrebbe essere un sogno che Google coltivava a lungo, ossia quello di prendere il controllo della ricerca di Yahoo – e anche di avere la possibilità di tornare sul luogo del delitto, dato che Google ha ottenuto il suo primo grande impulso proprio grazie alla ricerca su Yahoo, prima che quest’ultimo si svegliasse troppo tardi, non c’è semplicemente modo che ciò venga permesso dai regolatori, né dovrebbe esserlo. Tuttavia, devi quasi ammirare il coraggio del gigante delle ricerche nel fare questa mossa, se la pura e schietta arroganza non fosse così disturbante.
Non tutte persone per bene
Avevo allora fatto presente che Google non aveva commesso quasi nessuna delle tipiche aggressioni minacciose che caratterizzavano Microsoft quando aveva il dominio completo della tecnologia. Tuttavia, Google stava procedendo verso lo stesso tipo di monopolio che aveva denigrato meno di cinque anni prima nel suo manifesto.
È dannoso per gli inserzionisti, è dannoso per i consumatori, è dannoso per l’innovazione, non importa quanto ben intenzionato sia Google, ho scritto, notando anche che perlomeno i dirigenti di Microsoft sapevano di essere dei gangster. Forse mi ero spinta un po’ troppo oltre, motivo per cui uno dei tre, Schmidt, Brin o Page – in tutta onestà, non riesco a ricordare chi – mi ha chiamata perché era stato molto ferito. Ricordo che uno di loro mi aveva detto di non preoccuparmi della loro crescente potenza su tutte le informazioni del mondo. Siamo persone per bene, mi ha detto. È vero, erano gentili, ed è vero che non erano partiti da quel semplice garage per diventare gli dèi delle informazioni, nonché le persone più ricche e potenti del pianeta.
Non sono preoccupata per le persone per bene che sono al comando ora, ho risposto, senza aver perso le mie conoscenze di storia. Sono preoccupata per le persone cattive che ci saranno dopo. Sai, quelle realmente cattive. Dato che, a differenza delle persone di cui ho scritto, avevo studiato storia e di una cosa ero certa: quelle persone sarebbero arrivate molto presto.
Questo articolo richiama contenuti da Burn Book.
Immagine di apertura originale di Greg Bulla su Unsplash.