Niente più capelli superlunghi, una spuntatina alla barba. Ripulito un attimo il look, ma linguaggio comunque tagliente e preciso: non si attenua la missione profetica a sostegno del free software. Ecco RMS, altrimenti noto come Richard Stallman, visionario dei nostri tempi grazie alla convinzione delle idee e alla forza della modestia. Qualità che hanno dato linfa anche dell’intervento di venerdì pomeriggio all’Hackmeeting 2002 di Bologna sulle tematiche connesse al copyright. Un intervento puntiglioso e cesellato, ricco di articolati spunti storici nonché di possibili soluzioni a tutto tondo, che ha tenuto inchiodati per oltre novanta minuti diverse centinaia di persone pur in una situazione logistica tutt’altro che ideale. Già: afa terribile, sala ristretta e buia, poca aria e scarse le sedie. Ma per i presenti, giunti da un po’ tutta Italia (e il sottoscritto finanche dagli USA, pochi giorni fa), l’occasione era imperdibile — rivelandosi indubbiamente tale.
Dopo essersi accollato le spese di viaggio dalla East Coast, nei tre giorni di permanenza in loco invece del classico hotel cittadino Stallman ha preferito una spartana stanzetta predisposta al primo piano dell’edificio che ospita il TPO (Teatro Polivalente Occupato) di Via Lenin. Unico optional, più che meritato: l’aria condizionata. Ciò di fianco allo stanzone in cui giorno e (soprattutto) notte decine di hacker o aspiranti tali si davano da fare intorno a cavetti d’ogni tipo e fattura, laptop e monitor, periferiche e aggeggi vari, attivando un caos creativo senza soluzione di continuità. Ambiente (e rumore!) più che ideale per qualcuno che ha appassionatamente trascorso parecchio tempo della propria vita in situazioni analoghe — i mitici anni ’70, la comunità di pazzi ricercatori al Massachusetts Institute of Technology. Un filo rosso che collega le esperienze di ieri e di oggi, proiettando il movimento globale dell’hacking (e del software libero) in un futuro che non è stato ancora interamente scritto. E dove primeggia il concetto-base della libertà — nella circolazione delle idee e del software, nella possibilità di modificare e distribuire programmi, nella capacità di costruire comunità aperte.
Lo chiarisce fin dall’apertura lo stesso Stallman, dopo aver concordato sull’inutilità della traduzione vista la comprensione pressoché generale del suo inglese. “Freedom nel senso di libertà, non di birra gratis,” ripete con un’espressione ormai passata alla storia. “E per superare l’ambiguità del termine anglosassone ‘free’, in italiano ricordatevi sempre di distinguere tra ‘libero’ e ‘gratuito’.” Dovuta ma breve introduzione per ribadire altresì la necessità di ricorrere sempre e comunque all’esatta dizione GNU/Linux, visto che quest’ultimo non è altro che un kernel all’interno del più vasto arcipelago GNU. “Ma oggi non sono qui per parlavi di free software, quanto piuttosto di copyright e community nell’era digitale,” ha poi proseguito RMS. Attaccando con un’articolata panoramica sulle varie fasi storiche che hanno caratterizzato fino ai nostri giorni lo sviluppo della proprietà intellettuale. Qualcosa che sembra aver preso corpo formalmente e per iscritto, proprio in Italia, intorno al 1500. Fino ad allora l’attività degli amanuensi — la copia manuale di testi di ogni tipo, magari in bella calligrafia — era pratica di uso comune e nessuno vi trovava da ridire. Anzi: veniva da tutti considerato strumento indispensabile per la diffusione della conoscenza. E così fu fino all’arrivo delle tecniche di stampa, quando tale attività passò gradatamente dai singoli individui nelle mani di piccole e grandi strutture, le sole a potersi permettere gli elevati costi imprenditoriali. Nasce la corporazione degli editori, cui spetta produzione e stampa centralizzata di libri in numerose copie identiche tra loro, poi distribuite/vendute in giro.
Ma pur a fronte di un simile passaggio epocale, le norme a difesa della proprietà intellettuale degli autori non sono mai state intese come elemento valido o esaustivo per coprire ogni aspetto relativo alla diffusione della conoscenza, meno che mai nell’accesso individuale alla stessa. Da qualche tempo invece, ha insistito Stallman, la tendenza è quella di isolare “casi ristretti con un elevato livello di tutela del copyright e applicare un siffatto livello ad ogni situazione.” Ecco quindi, ad esempio, gli attacchi feroci di Hollywood contro ogni software (libero, guarda caso) che consenta il superamento delle tecnologie anti-copia di DVD ed e-book per impieghi personali o ristretti. Oppure l’accanimento legale contro apparecchi con cui registrare film in TV saltando però gli spot pubblicitari. E cosa dire sulla continua estensione dei diritti cui mirano dichiaratamente industriali e politici USA? “Costoro vorrebbero imporre il copyright eterno su ogni opera. Walt Disney non ha alcuna intenzione di far entrare Mickey Mouse nel public domain. Lo stesso dicasi per le potenti industrie dell’editoria e della musica. Recentemente sono state approvate ennesime estensioni sui diritti, dando vita a quello che è meglio noto come Mickey Mouse Copyright Act.”
Uno scenario messo sottosopra, guarda caso, dall’avvento del digitale. Grazie in particolare a Internet, diminuisce drasticamente o viene azzerato il bisogno di contesti centralizzati per la produzione di beni intellettuali. Una sorta di ritorno al passato degli amanuensi, con risultati però assai più rapidi ed efficaci, dove stridono concezioni e leggi fatte invece per regolamentare il business di rigide strutture imprenditoriali. “Oggi quelle norme finiscono per limitare la libertà del pubblico, impedire la fruibilità e l’innovazione, danneggiare la nostra stessa esistenza di cittadini in quanto tali.” Cosa fare, dunque? Lucide le soluzioni avanzate nell’occasione, frutto di riflessioni comuni e in tipico stile GPL, ovvero sempre aperte agli apporti di chiunque voglia coinvolgersi. In breve, si potrebbero stabilire tre diverse categorie di prodotti intellettuali da tutelare in maniera diversa tra loro. Le opere funzionali, tipo manuali informatici e ricette di cucina, che sostanzialmente non richiedono alcun copyright, poiché queste vengono migliorate esattamente dai liberi contributi di utenti e lettori (vedesi progetti open source in corso quali Wikipedia). I lavori che rappresentano il pensiero dei rispettivi autori, quali saggi, ricerche scientifiche, memorie storiche, e che generalmente è bene lasciare immuni da interventi altrui; qui si potrebbe comunque prevedere la libera copia verbatim, per usi non-commerciali. Infine, l’ambito meno definibile al momento, le opere di intrattenimento e di pura estetica, dove è impossibile giustificare alcuna modifica ed esistono pezzi unici, non riproducibili, ma con la possibilità di soluzioni tecnologicamente semplici quali il clic per “inviare un dollaro a quella band che ci piace tanto mentre la ascoltiamo online.”
Il tutto a ulteriore riprova di come il digitale e Internet vadano intese in qualità di “veri e propri alleati degli artisti”, non certo in quanto loro nemici, come invece vorrebbe farci credere l’industria di Hollywood. La quale vorrebbe affibbiare a tutti noi l’appellativo di pirati, mentre invece siamo solo “difendendo la nostra libertà di far circolare idee e software, modificare e ridistribuire programmi, costruire comunità aperte,” ha concluso con sagacia Stallman. Augurandosi infine di vedere i politici nazionali prendere le parti dei diritti del pubblico anziché di una manciata di potenti multinazionali. Applausi scroscianti, appena prima della sorpresina finale: l’arrivo del suo alter ego, Sant’Ignucius. Indossata la tunica scura e l’aureola della santità, RMS ha così benedetto i PC dei presenti e profferito le parole di rito per entrare a far parte della Chiesa dell’Emacs, tra le ovazioni e il divertimento generali. A conferma del fatto che è bene non prendersi mai troppo sul serio — anche quando si ha pienamente ragione nella crociata contro il software proprietario.